Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare. E le piaceva chattare.
di Giuditta Abatescianni
Come ogni mattina Mafalda, subito dopo aver sorseggiato il caffè, accendeva la prima sigaretta con voluttuosa avidità e incurante del disordine in cucina si sedeva alla scrivania e tramite il computer si collegava a facebook e chattava con il tizio che diceva di chiamarsi Mauro e con cui aveva stabilito da tre giorni una fitta conversazione.
Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare.
Non si era mai sposata e non aveva avuto figli.
La foto del profilo di Mauro mostrava un uomo giovanile di età non definibile, un paio di occhiali scuri ne nascondevano lo sguardo e un sorriso accattivante guardava la donna sempre più attratta e il momento tanto atteso dell’incontro stava per arrivare.
Quanta emozione quel sabato sera, lui sarebbe passato a prenderla per andare in un noto locale della città dove avrebbero cenato e anche ballato.
Aveva indossato l’abito nero con le paillettes sotto la pelliccia di visone; il viso ben truccato poco nascondeva quelle fitte rughe ma, in compenso, Mafalda aveva una dolcezza nei lineamenti e un sorriso largo e intrigante, era sicura di sé, era convinta di sapere esattamente ciò che poteva piacere a un uomo.
Al citofono la sua voce era carezzevole e s’illuminò quando vide Mauro che le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra. Mafalda ne fu conquistata.
La cena a lume di candela, un bicchiere e poi un altro e poi un altro ancora di frizzante fresco vino bianco, una canzone di Mina fecero sì che Mafalda fosse bella e stracotta; quell’uomo dallo sguardo rapace l’aveva soggiogata, poteva chiederle qualunque cosa, ella sarebbe capitolata.
Ballarono e le mani di Mauro scivolavano lentamente sulla nuca e piano piano fin giù lungo la schiena, scuotendo Mafalda fin dentro le viscere, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quell’incantesimo, paventando il momento che tutto potesse finire, e fu così che senza alcun ritegno gettò alle ortiche la sua avvedutezza e ogni forma di diffidenza. Che male poteva farle una persona così gentile e sensibile che le sussurrava alle orecchie i versi delle più belle poesie degli autori a lei tanto cari. Si capiva che Mauro era un uomo colto, riteneva a memoria i versi di Emily Dickinson, di Emily Bronte, di Saffo e poi ancora di Federico Garcia Lorca, di Pedro Salinas, di Pablo Neruda, di Anais Nìn e altre perle di dolcezza e di struggimento senza fine.
“ Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei…..”.
Mafalda sentì cedere tutte le sue riserve e con estrema naturalezza lo invitò a trascorrere la notte da lei a casa, in quel lettone che mai nessun uomo aveva fino ad allora accolto.
Il letto del pianto lo aveva sempre definito, ma adesso sarebbe diventato il letto della gioia, dell’estasi, sì perchè estasi era ciò che Mauro le stava facendo provare.
Mentre in cucina Mafalda preparava il caffè, Mauro si aggirava disinvolto per le stanze di quella casa arredata con raffinatezza; dipinti d’autore, sculture di bronzo lumi antichi, porcellane preziose e tanti altri oggetti di pregio che la donna aveva accumulato nel tempo, molti dei quali ereditati dalla famiglia di cui ella era rimasta l’unica superstite. Sulla scrivania in camera da letto un portagioie traboccava di collane orecchini anelli spille e braccialetti di tutte le fogge e con diverse pietre preziose; Mafalda amava molto adornarsi di gioielli. Le sembrava un atto dovuto a se stessa per compensare quei solchi al viso, solchi impietosi a ricordarle il tempo che passava inesorabile e lento.
Una soffice vestaglia di seta beige , poche gocce di profumo e un vassoio d’argento con due tazzine colme di caffè erano il preludio a una notte indimenticabile.
Si adagiarono sul letto, lui la tenne stretta tra le braccia, la baciò a lungo lentamente, la sentiva fremere e spasimare e ancora altri versi mormorava nelle orecchie della donna che gemeva gemeva e supplicava un contatto più intimo.
Mafalda si sentiva coinvolta, aveva perso ogni inibizione, incominciò a toccarsi a toccarlo ma lui ancora la faceva aspettare, perchè perchè lei chiedeva, prendimi, ti voglio ti prego ti prego.
“ Facciamo un gioco Mafalda, vuoi?”
“ Sì, sì fai ciò che vuoi, ma ti prego amami, fammi godere!”
Mafalda era accaldata, sudava e spasimava sempre di più ; Mauro la bendò con la sciarpa di seta blu che aveva al collo, le legò i polsi alla spalliera del letto di ottone e incominciò a recitare.
“ Sai Mafalda, da bambino cantavo nel coro della chiesa e mia madre mi ha fatto studiare per diventare tenore, mi ha sempre detto che con la mia voce potevo far miracoli e che sarei diventato famoso come Enrico Caruso. Sì, ma poi mi ha lasciato per andare con un altro uomo che non era mio padre, mi ha lasciato la sgualdrina, mi ha abbandonato e ho vissuto in un orfanotrofio. Qui ho imparato tutto ciò che un ragazzino non deve, ma in compenso ho potuto imparare a memoria centinaia e centinaia di poesie che mi hanno permesso di mangiare di più e meglio dei miei compagni. Adorano certi adulti le poesie, soprattutto dalla bocca di ragazzini innocenti e da adulto sono le poesie che mi danno da vivere, ti piacciono le mie poesie, vero Mafalda? Dimmi che ti piacciono, dimmelo, chiedimi di recitartene altre, o pensi che mi sia invaghito di te, della tua bellezza?
Non sei altro che una vecchia schifosa avvizzita e ignorante, non vuoi ascoltare le mie poesie, vuoi soltanto che ti scopi? Ecco tolgo via la sciarpa dai tuoi occhi, ecco guardati allo specchio, sei brutta, sei vecchia, sei indecente nella tua nudità.
E adesso guardami, ammira il mio gioiello e dimmi se non sono bello!”
Mafalda era atterrita, tremava, ma questa volta di paura e non certo di ebbrezza d’amore, quell’individuo era un mostro, un pazzo mostro che si stava scatenando contro di lei, perchè proprio lei?
Eppure era stata gentile, le aveva aperto la porta di casa e della camera da letto!
Incominciò a piangere, dapprima sommessamente e poi singhiozzando lo pregava di andarsene, di lasciarla stare.
Ottenne l’effetto contrario: più lo pregava di smettere e più lui si esibiva.
Egli era nudo con la sciarpa di seta blu al collo e muoveva il pene eretto a mò di microfono recitando con sussiego i versi di “ Madrigale d’estate” di Federico Garcia Lorca.
“ Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
colore della tua carne campagnola
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei data a me, luce bruna?
Perchè mi desti pieni
d’amore il sesso di giglio
e i seni sonori?
Fu per la mia tristezza?
(Oh, i miei goffi passi!)
Forse destò pietà in te
la mia vita spenta di canti?
Perchè non hai preferito ai miei lamenti
le cosce sudate
di un san Cristoforo contadino
pesanti in amore e belle?
Danaide del piacere sei con me.
Femminile Silvano.
I tuoi baci odorano come il grano
secco dell’estate.
Oscurami la vista col tuo canto.
Sciogli la tua chioma
dispiegata e solenne come un manto
d’ombra sopra i prati.
Dipingimi con la bocca insanguinata
un cielo d’amore,
su un fondo di carne, la stella
violetta del dolore.
Prigioniero è il mio pegaso andaluso
dei tuoi occhi aperti,
e volerà desolato e assorto
quando li vedrà morti.
Anche se tu non m’amassi, t’amerei
per il tuo sguardo cupo
come l’allodola ama il giorno nuovo
per la rugiada.
Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Lasciami sotto il giorno chiaro
consumare la mela.”
Mafalda si divincolò nel momento in cui l’uomo le si avvicinò brandendo un paio di forbici da cucina sotto il suo seno, ormai era giunta a un tale stato di disperazione e terrore che la voce le moriva in gola, si rendeva conto di essere completamente sola e in balia di un perfetto sconosciuto che voleva assassinarla e in maniera così cruenta! Aveva le mani legate e quindi tentò di spingere le gambe e i piedi contro Mauro che rideva recitava versi e rideva e minacciava di tagliarle i capezzoli. L’immagine di quel pene penzolante sotto la sua testa la faceva inorridire, e pensare che lo aveva desiderato tanto, aveva gemuto supplicato per averlo dentro le sue viscere e ora quello stesso oggetto di desiderio era per lei una tortura allucinante. Sentiva di non avere vie di scampo, chiamare qualcuno? E chi? E come? Tutti questi interrogativi le attraversavano la mente ma la voce per gridare non veniva fuori.
Sentì allora che la fine era vicina, sarebbe morta in quel letto disfatto e sporco di sangue e di urina che fluiva incontrollata…
“ Madonna mia aiutami, madre mia aiutami, fa’ che questo bruto rinsavisca e mi lasci vivere, oppure fammi morire adesso subito e che io non soffra così tanto nella vergogna di essere caduta così in basso!”
“ Ti piacciono le mie poesie, ti piace il mio pene, ti piaccio io? Mi vuoi? Eccomi, prendimi donnaccia, prendimi se ci riesci! Siete tutte uguali voi donne, siete tutte uguali insensibili al vero amore, volete essere penetrate e nient’altro!”
“ Ti prego lasciami stare, ti giuro che se mi sleghi e vai via non ti denuncerò, ho capito sai che soffri per l’abbandono di tua madre ma ora devi calmarti, ti prego slegami i polsi, dai Mauro dai fai il bravo bambino.”
Queste parole scatenarono nel bruto l’effetto un disperato pianto a dirotto, si mise a sedere sul bordo del letto, si aggrappò alle ginocchia di Mafalda e singhiozzando la chiamava mamma.
Quella madre che tanti anni addietro lo aveva abbandonato lasciandolo in balia di assurdi capricci di adulti in quello squallido orfanotrofio…
Il corpo straziato e putrefatto di Mafalda fu ritrovato soltanto dopo tre giorni dalla donna delle pulizie
Mafalda
Come ogni mattina Mafalda, subito dopo aver sorseggiato il caffè, accendeva la prima sigaretta con voluttuosa avidità e incurante del disordine in cucina si sedeva alla scrivania e tramite il computer si collegava a facebook e chattava con il tizio che diceva di chiamarsi Mauro e con cui aveva stabilito da tre giorni una fitta conversazione.
Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare.
Non si era mai sposata e non aveva avuto figli.
La foto del profilo di Mauro mostrava un uomo giovanile di età non definibile, un paio di occhiali scuri ne nascondevano lo sguardo e un sorriso accattivante guardava la donna sempre più attratta e il momento tanto atteso dell’incontro stava per arrivare.
Quanta emozione quel sabato sera, lui sarebbe passato a prenderla per andare in un noto locale della città dove avrebbero cenato e anche ballato.
Aveva indossato l’abito nero con le paillettes sotto la pelliccia di visone; il viso ben truccato poco nascondeva quelle fitte rughe ma, in compenso, Mafalda aveva una dolcezza nei lineamenti e un sorriso largo e intrigante, era sicura di sé, era convinta di sapere esattamente ciò che poteva piacere a un uomo.
Al citofono la sua voce era carezzevole e s’illuminò quando vide Mauro che le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra. Mafalda ne fu conquistata.
La cena a lume di candela, un bicchiere e poi un altro e poi un altro ancora di frizzante fresco vino bianco, una canzone di Mina fecero sì che Mafalda fosse bella e stracotta; quell’uomo dallo sguardo rapace l’aveva soggiogata, poteva chiederle qualunque cosa, ella sarebbe capitolata.
Ballarono e le mani di Mauro scivolavano lentamente sulla nuca e piano piano fin giù lungo la schiena, scuotendo Mafalda fin dentro le viscere, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quell’incantesimo, paventando il momento che tutto potesse finire, e fu così che senza alcun ritegno gettò alle ortiche la sua avvedutezza e ogni forma di diffidenza. Che male poteva farle una persona così gentile e sensibile che le sussurrava alle orecchie i versi delle più belle poesie degli autori a lei tanto cari. Si capiva che Mauro era un uomo colto, riteneva a memoria i versi di Emily Dickinson, di Emily Bronte, di Saffo e poi ancora di Federico Garcia Lorca, di Pedro Salinas, di Pablo Neruda, di Anais Nìn e altre perle di dolcezza e di struggimento senza fine.
“ Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei…..”.
Mafalda sentì cedere tutte le sue riserve e con estrema naturalezza lo invitò a trascorrere la notte da lei a casa, in quel lettone che mai nessun uomo aveva fino ad allora accolto.
Il letto del pianto lo aveva sempre definito, ma adesso sarebbe diventato il letto della gioia, dell’estasi, sì perchè estasi era ciò che Mauro le stava facendo provare.
Mentre in cucina Mafalda preparava il caffè, Mauro si aggirava disinvolto per le stanze di quella casa arredata con raffinatezza; dipinti d’autore, sculture di bronzo lumi antichi, porcellane preziose e tanti altri oggetti di pregio che la donna aveva accumulato nel tempo, molti dei quali ereditati dalla famiglia di cui ella era rimasta l’unica superstite. Sulla scrivania in camera da letto un portagioie traboccava di collane orecchini anelli spille e braccialetti di tutte le fogge e con diverse pietre preziose; Mafalda amava molto adornarsi di gioielli. Le sembrava un atto dovuto a se stessa per compensare quei solchi al viso, solchi impietosi a ricordarle il tempo che passava inesorabile e lento.
Una soffice vestaglia di seta beige , poche gocce di profumo e un vassoio d’argento con due tazzine colme di caffè erano il preludio a una notte indimenticabile.
Si adagiarono sul letto, lui la tenne stretta tra le braccia, la baciò a lungo lentamente, la sentiva fremere e spasimare e ancora altri versi mormorava nelle orecchie della donna che gemeva gemeva e supplicava un contatto più intimo.
Mafalda si sentiva coinvolta, aveva perso ogni inibizione, incominciò a toccarsi a toccarlo ma lui ancora la faceva aspettare, perchè perchè lei chiedeva, prendimi, ti voglio ti prego ti prego.
“ Facciamo un gioco Mafalda, vuoi?”
“ Sì, sì fai ciò che vuoi, ma ti prego amami, fammi godere!”
Mafalda era accaldata, sudava e spasimava sempre di più ; Mauro la bendò con la sciarpa di seta blu che aveva al collo, le legò i polsi alla spalliera del letto di ottone e incominciò a recitare.
“ Sai Mafalda, da bambino cantavo nel coro della chiesa e mia madre mi ha fatto studiare per diventare tenore, mi ha sempre detto che con la mia voce potevo far miracoli e che sarei diventato famoso come Enrico Caruso. Sì, ma poi mi ha lasciato per andare con un altro uomo che non era mio padre, mi ha lasciato la sgualdrina, mi ha abbandonato e ho vissuto in un orfanotrofio. Qui ho imparato tutto ciò che un ragazzino non deve, ma in compenso ho potuto imparare a memoria centinaia e centinaia di poesie che mi hanno permesso di mangiare di più e meglio dei miei compagni. Adorano certi adulti le poesie, soprattutto dalla bocca di ragazzini innocenti e da adulto sono le poesie che mi danno da vivere, ti piacciono le mie poesie, vero Mafalda? Dimmi che ti piacciono, dimmelo, chiedimi di recitartene altre, o pensi che mi sia invaghito di te, della tua bellezza?
Non sei altro che una vecchia schifosa avvizzita e ignorante, non vuoi ascoltare le mie poesie, vuoi soltanto che ti scopi? Ecco tolgo via la sciarpa dai tuoi occhi, ecco guardati allo specchio, sei brutta, sei vecchia, sei indecente nella tua nudità.
E adesso guardami, ammira il mio gioiello e dimmi se non sono bello!”
Mafalda era atterrita, tremava, ma questa volta di paura e non certo di ebbrezza d’amore, quell’individuo era un mostro, un pazzo mostro che si stava scatenando contro di lei, perchè proprio lei?
Eppure era stata gentile, le aveva aperto la porta di casa e della camera da letto!
Incominciò a piangere, dapprima sommessamente e poi singhiozzando lo pregava di andarsene, di lasciarla stare.
Ottenne l’effetto contrario: più lo pregava di smettere e più lui si esibiva.
Egli era nudo con la sciarpa di seta blu al collo e muoveva il pene eretto a mò di microfono recitando con sussiego i versi di “ Madrigale d’estate” di Federico Garcia Lorca.
“ Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
colore della tua carne campagnola
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei data a me, luce bruna?
Perchè mi desti pieni
d’amore il sesso di giglio
e i seni sonori?
Fu per la mia tristezza?
(Oh, i miei goffi passi!)
Forse destò pietà in te
la mia vita spenta di canti?
Perchè non hai preferito ai miei lamenti
le cosce sudate
di un san Cristoforo contadino
pesanti in amore e belle?
Danaide del piacere sei con me.
Femminile Silvano.
I tuoi baci odorano come il grano
secco dell’estate.
Oscurami la vista col tuo canto.
Sciogli la tua chioma
dispiegata e solenne come un manto
d’ombra sopra i prati.
Dipingimi con la bocca insanguinata
un cielo d’amore,
su un fondo di carne, la stella
violetta del dolore.
Prigioniero è il mio pegaso andaluso
dei tuoi occhi aperti,
e volerà desolato e assorto
quando li vedrà morti.
Anche se tu non m’amassi, t’amerei
per il tuo sguardo cupo
come l’allodola ama il giorno nuovo
per la rugiada.
Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Lasciami sotto il giorno chiaro
consumare la mela.”
Mafalda si divincolò nel momento in cui l’uomo le si avvicinò brandendo un paio di forbici da cucina sotto il suo seno, ormai era giunta a un tale stato di disperazione e terrore che la voce le moriva in gola, si rendeva conto di essere completamente sola e in balia di un perfetto sconosciuto che voleva assassinarla e in maniera così cruenta! Aveva le mani legate e quindi tentò di spingere le gambe e i piedi contro Mauro che rideva recitava versi e rideva e minacciava di tagliarle i capezzoli. L’immagine di quel pene penzolante sotto la sua testa la faceva inorridire, e pensare che lo aveva desiderato tanto, aveva gemuto supplicato per averlo dentro le sue viscere e ora quello stesso oggetto di desiderio era per lei una tortura allucinante. Sentiva di non avere vie di scampo, chiamare qualcuno? E chi? E come? Tutti questi interrogativi le attraversavano la mente ma la voce per gridare non veniva fuori.
Sentì allora che la fine era vicina, sarebbe morta in quel letto disfatto e sporco di sangue e di urina che fluiva incontrollata…
“ Madonna mia aiutami, madre mia aiutami, fa’ che questo bruto rinsavisca e mi lasci vivere, oppure fammi morire adesso subito e che io non soffra così tanto nella vergogna di essere caduta così in basso!”
“ Ti piacciono le mie poesie, ti piace il mio pene, ti piaccio io? Mi vuoi? Eccomi, prendimi donnaccia, prendimi se ci riesci! Siete tutte uguali voi donne, siete tutte uguali insensibili al vero amore, volete essere penetrate e nient’altro!”
“ Ti prego lasciami stare, ti giuro che se mi sleghi e vai via non ti denuncerò, ho capito sai che soffri per l’abbandono di tua madre ma ora devi calmarti, ti prego slegami i polsi, dai Mauro dai fai il bravo bambino.”
Queste parole scatenarono nel bruto l’effetto un disperato pianto a dirotto, si mise a sedere sul bordo del letto, si aggrappò alle ginocchia di Mafalda e singhiozzando la chiamava mamma.
Quella madre che tanti anni addietro lo aveva abbandonato lasciandolo in balia di assurdi capricci di adulti in quello squallido orfanotrofio…
Il corpo straziato e putrefatto di Mafalda fu ritrovato soltanto dopo tre giorni dalla donna delle pulizie.
Giuditta Abatescianni
Mafalda
Come ogni mattina Mafalda, subito dopo aver sorseggiato il caffè, accendeva la prima sigaretta con voluttuosa avidità e incurante del disordine in cucina si sedeva alla scrivania e tramite il computer si collegava a facebook e chattava con il tizio che diceva di chiamarsi Mauro e con cui aveva stabilito da tre giorni una fitta conversazione.
Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare.
Non si era mai sposata e non aveva avuto figli.
La foto del profilo di Mauro mostrava un uomo giovanile di età non definibile, un paio di occhiali scuri ne nascondevano lo sguardo e un sorriso accattivante guardava la donna sempre più attratta e il momento tanto atteso dell’incontro stava per arrivare.
Quanta emozione quel sabato sera, lui sarebbe passato a prenderla per andare in un noto locale della città dove avrebbero cenato e anche ballato.
Aveva indossato l’abito nero con le paillettes sotto la pelliccia di visone; il viso ben truccato poco nascondeva quelle fitte rughe ma, in compenso, Mafalda aveva una dolcezza nei lineamenti e un sorriso largo e intrigante, era sicura di sé, era convinta di sapere esattamente ciò che poteva piacere a un uomo.
Al citofono la sua voce era carezzevole e s’illuminò quando vide Mauro che le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra. Mafalda ne fu conquistata.
La cena a lume di candela, un bicchiere e poi un altro e poi un altro ancora di frizzante fresco vino bianco, una canzone di Mina fecero sì che Mafalda fosse bella e stracotta; quell’uomo dallo sguardo rapace l’aveva soggiogata, poteva chiederle qualunque cosa, ella sarebbe capitolata.
Ballarono e le mani di Mauro scivolavano lentamente sulla nuca e piano piano fin giù lungo la schiena, scuotendo Mafalda fin dentro le viscere, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quell’incantesimo, paventando il momento che tutto potesse finire, e fu così che senza alcun ritegno gettò alle ortiche la sua avvedutezza e ogni forma di diffidenza. Che male poteva farle una persona così gentile e sensibile che le sussurrava alle orecchie i versi delle più belle poesie degli autori a lei tanto cari. Si capiva che Mauro era un uomo colto, riteneva a memoria i versi di Emily Dickinson, di Emily Bronte, di Saffo e poi ancora di Federico Garcia Lorca, di Pedro Salinas, di Pablo Neruda, di Anais Nìn e altre perle di dolcezza e di struggimento senza fine.
“ Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei…..”.
Mafalda sentì cedere tutte le sue riserve e con estrema naturalezza lo invitò a trascorrere la notte da lei a casa, in quel lettone che mai nessun uomo aveva fino ad allora accolto.
Il letto del pianto lo aveva sempre definito, ma adesso sarebbe diventato il letto della gioia, dell’estasi, sì perchè estasi era ciò che Mauro le stava facendo provare.
Mentre in cucina Mafalda preparava il caffè, Mauro si aggirava disinvolto per le stanze di quella casa arredata con raffinatezza; dipinti d’autore, sculture di bronzo lumi antichi, porcellane preziose e tanti altri oggetti di pregio che la donna aveva accumulato nel tempo, molti dei quali ereditati dalla famiglia di cui ella era rimasta l’unica superstite. Sulla scrivania in camera da letto un portagioie traboccava di collane orecchini anelli spille e braccialetti di tutte le fogge e con diverse pietre preziose; Mafalda amava molto adornarsi di gioielli. Le sembrava un atto dovuto a se stessa per compensare quei solchi al viso, solchi impietosi a ricordarle il tempo che passava inesorabile e lento.
Una soffice vestaglia di seta beige , poche gocce di profumo e un vassoio d’argento con due tazzine colme di caffè erano il preludio a una notte indimenticabile.
Si adagiarono sul letto, lui la tenne stretta tra le braccia, la baciò a lungo lentamente, la sentiva fremere e spasimare e ancora altri versi mormorava nelle orecchie della donna che gemeva gemeva e supplicava un contatto più intimo.
Mafalda si sentiva coinvolta, aveva perso ogni inibizione, incominciò a toccarsi a toccarlo ma lui ancora la faceva aspettare, perchè perchè lei chiedeva, prendimi, ti voglio ti prego ti prego.
“ Facciamo un gioco Mafalda, vuoi?”
“ Sì, sì fai ciò che vuoi, ma ti prego amami, fammi godere!”
Mafalda era accaldata, sudava e spasimava sempre di più ; Mauro la bendò con la sciarpa di seta blu che aveva al collo, le legò i polsi alla spalliera del letto di ottone e incominciò a recitare.
“ Sai Mafalda, da bambino cantavo nel coro della chiesa e mia madre mi ha fatto studiare per diventare tenore, mi ha sempre detto che con la mia voce potevo far miracoli e che sarei diventato famoso come Enrico Caruso. Sì, ma poi mi ha lasciato per andare con un altro uomo che non era mio padre, mi ha lasciato la sgualdrina, mi ha abbandonato e ho vissuto in un orfanotrofio. Qui ho imparato tutto ciò che un ragazzino non deve, ma in compenso ho potuto imparare a memoria centinaia e centinaia di poesie che mi hanno permesso di mangiare di più e meglio dei miei compagni. Adorano certi adulti le poesie, soprattutto dalla bocca di ragazzini innocenti e da adulto sono le poesie che mi danno da vivere, ti piacciono le mie poesie, vero Mafalda? Dimmi che ti piacciono, dimmelo, chiedimi di recitartene altre, o pensi che mi sia invaghito di te, della tua bellezza?
Non sei altro che una vecchia schifosa avvizzita e ignorante, non vuoi ascoltare le mie poesie, vuoi soltanto che ti scopi? Ecco tolgo via la sciarpa dai tuoi occhi, ecco guardati allo specchio, sei brutta, sei vecchia, sei indecente nella tua nudità.
E adesso guardami, ammira il mio gioiello e dimmi se non sono bello!”
Mafalda era atterrita, tremava, ma questa volta di paura e non certo di ebbrezza d’amore, quell’individuo era un mostro, un pazzo mostro che si stava scatenando contro di lei, perchè proprio lei?
Eppure era stata gentile, le aveva aperto la porta di casa e della camera da letto!
Incominciò a piangere, dapprima sommessamente e poi singhiozzando lo pregava di andarsene, di lasciarla stare.
Ottenne l’effetto contrario: più lo pregava di smettere e più lui si esibiva.
Egli era nudo con la sciarpa di seta blu al collo e muoveva il pene eretto a mò di microfono recitando con sussiego i versi di “ Madrigale d’estate” di Federico Garcia Lorca.
“ Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
colore della tua carne campagnola
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei data a me, luce bruna?
Perchè mi desti pieni
d’amore il sesso di giglio
e i seni sonori?
Fu per la mia tristezza?
(Oh, i miei goffi passi!)
Forse destò pietà in te
la mia vita spenta di canti?
Perchè non hai preferito ai miei lamenti
le cosce sudate
di un san Cristoforo contadino
pesanti in amore e belle?
Danaide del piacere sei con me.
Femminile Silvano.
I tuoi baci odorano come il grano
secco dell’estate.
Oscurami la vista col tuo canto.
Sciogli la tua chioma
dispiegata e solenne come un manto
d’ombra sopra i prati.
Dipingimi con la bocca insanguinata
un cielo d’amore,
su un fondo di carne, la stella
violetta del dolore.
Prigioniero è il mio pegaso andaluso
dei tuoi occhi aperti,
e volerà desolato e assorto
quando li vedrà morti.
Anche se tu non m’amassi, t’amerei
per il tuo sguardo cupo
come l’allodola ama il giorno nuovo
per la rugiada.
Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Lasciami sotto il giorno chiaro
consumare la mela.”
Mafalda si divincolò nel momento in cui l’uomo le si avvicinò brandendo un paio di forbici da cucina sotto il suo seno, ormai era giunta a un tale stato di disperazione e terrore che la voce le moriva in gola, si rendeva conto di essere completamente sola e in balia di un perfetto sconosciuto che voleva assassinarla e in maniera così cruenta! Aveva le mani legate e quindi tentò di spingere le gambe e i piedi contro Mauro che rideva recitava versi e rideva e minacciava di tagliarle i capezzoli. L’immagine di quel pene penzolante sotto la sua testa la faceva inorridire, e pensare che lo aveva desiderato tanto, aveva gemuto supplicato per averlo dentro le sue viscere e ora quello stesso oggetto di desiderio era per lei una tortura allucinante. Sentiva di non avere vie di scampo, chiamare qualcuno? E chi? E come? Tutti questi interrogativi le attraversavano la mente ma la voce per gridare non veniva fuori.
Sentì allora che la fine era vicina, sarebbe morta in quel letto disfatto e sporco di sangue e di urina che fluiva incontrollata…
“ Madonna mia aiutami, madre mia aiutami, fa’ che questo bruto rinsavisca e mi lasci vivere, oppure fammi morire adesso subito e che io non soffra così tanto nella vergogna di essere caduta così in basso!”
“ Ti piacciono le mie poesie, ti piace il mio pene, ti piaccio io? Mi vuoi? Eccomi, prendimi donnaccia, prendimi se ci riesci! Siete tutte uguali voi donne, siete tutte uguali insensibili al vero amore, volete essere penetrate e nient’altro!”
“ Ti prego lasciami stare, ti giuro che se mi sleghi e vai via non ti denuncerò, ho capito sai che soffri per l’abbandono di tua madre ma ora devi calmarti, ti prego slegami i polsi, dai Mauro dai fai il bravo bambino.”
Queste parole scatenarono nel bruto l’effetto un disperato pianto a dirotto, si mise a sedere sul bordo del letto, si aggrappò alle ginocchia di Mafalda e singhiozzando la chiamava mamma.
Quella madre che tanti anni addietro lo aveva abbandonato lasciandolo in balia di assurdi capricci di adulti in quello squallido orfanotrofio…
Il corpo straziato e putrefatto di Mafalda fu ritrovato soltanto dopo tre giorni dalla donna delle pulizie.
Mafalda
Come ogni mattina Mafalda, subito dopo aver sorseggiato il caffè, accendeva la prima sigaretta con voluttuosa avidità e incurante del disordine in cucina si sedeva alla scrivania e tramite il computer si collegava a facebook e chattava con il tizio che diceva di chiamarsi Mauro e con cui aveva stabilito da tre giorni una fitta conversazione.
Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare.
Non si era mai sposata e non aveva avuto figli.
La foto del profilo di Mauro mostrava un uomo giovanile di età non definibile, un paio di occhiali scuri ne nascondevano lo sguardo e un sorriso accattivante guardava la donna sempre più attratta e il momento tanto atteso dell’incontro stava per arrivare.
Quanta emozione quel sabato sera, lui sarebbe passato a prenderla per andare in un noto locale della città dove avrebbero cenato e anche ballato.
Aveva indossato l’abito nero con le paillettes sotto la pelliccia di visone; il viso ben truccato poco nascondeva quelle fitte rughe ma, in compenso, Mafalda aveva una dolcezza nei lineamenti e un sorriso largo e intrigante, era sicura di sé, era convinta di sapere esattamente ciò che poteva piacere a un uomo.
Al citofono la sua voce era carezzevole e s’illuminò quando vide Mauro che le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra. Mafalda ne fu conquistata.
La cena a lume di candela, un bicchiere e poi un altro e poi un altro ancora di frizzante fresco vino bianco, una canzone di Mina fecero sì che Mafalda fosse bella e stracotta; quell’uomo dallo sguardo rapace l’aveva soggiogata, poteva chiederle qualunque cosa, ella sarebbe capitolata.
Ballarono e le mani di Mauro scivolavano lentamente sulla nuca e piano piano fin giù lungo la schiena, scuotendo Mafalda fin dentro le viscere, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quell’incantesimo, paventando il momento che tutto potesse finire, e fu così che senza alcun ritegno gettò alle ortiche la sua avvedutezza e ogni forma di diffidenza. Che male poteva farle una persona così gentile e sensibile che le sussurrava alle orecchie i versi delle più belle poesie degli autori a lei tanto cari. Si capiva che Mauro era un uomo colto, riteneva a memoria i versi di Emily Dickinson, di Emily Bronte, di Saffo e poi ancora di Federico Garcia Lorca, di Pedro Salinas, di Pablo Neruda, di Anais Nìn e altre perle di dolcezza e di struggimento senza fine.
“ Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei…..”.
Mafalda sentì cedere tutte le sue riserve e con estrema naturalezza lo invitò a trascorrere la notte da lei a casa, in quel lettone che mai nessun uomo aveva fino ad allora accolto.
Il letto del pianto lo aveva sempre definito, ma adesso sarebbe diventato il letto della gioia, dell’estasi, sì perchè estasi era ciò che Mauro le stava facendo provare.
Mentre in cucina Mafalda preparava il caffè, Mauro si aggirava disinvolto per le stanze di quella casa arredata con raffinatezza; dipinti d’autore, sculture di bronzo lumi antichi, porcellane preziose e tanti altri oggetti di pregio che la donna aveva accumulato nel tempo, molti dei quali ereditati dalla famiglia di cui ella era rimasta l’unica superstite. Sulla scrivania in camera da letto un portagioie traboccava di collane orecchini anelli spille e braccialetti di tutte le fogge e con diverse pietre preziose; Mafalda amava molto adornarsi di gioielli. Le sembrava un atto dovuto a se stessa per compensare quei solchi al viso, solchi impietosi a ricordarle il tempo che passava inesorabile e lento.
Una soffice vestaglia di seta beige , poche gocce di profumo e un vassoio d’argento con due tazzine colme di caffè erano il preludio a una notte indimenticabile.
Si adagiarono sul letto, lui la tenne stretta tra le braccia, la baciò a lungo lentamente, la sentiva fremere e spasimare e ancora altri versi mormorava nelle orecchie della donna che gemeva gemeva e supplicava un contatto più intimo.
Mafalda si sentiva coinvolta, aveva perso ogni inibizione, incominciò a toccarsi a toccarlo ma lui ancora la faceva aspettare, perchè perchè lei chiedeva, prendimi, ti voglio ti prego ti prego.
“ Facciamo un gioco Mafalda, vuoi?”
“ Sì, sì fai ciò che vuoi, ma ti prego amami, fammi godere!”
Mafalda era accaldata, sudava e spasimava sempre di più ; Mauro la bendò con la sciarpa di seta blu che aveva al collo, le legò i polsi alla spalliera del letto di ottone e incominciò a recitare.
“ Sai Mafalda, da bambino cantavo nel coro della chiesa e mia madre mi ha fatto studiare per diventare tenore, mi ha sempre detto che con la mia voce potevo far miracoli e che sarei diventato famoso come Enrico Caruso. Sì, ma poi mi ha lasciato per andare con un altro uomo che non era mio padre, mi ha lasciato la sgualdrina, mi ha abbandonato e ho vissuto in un orfanotrofio. Qui ho imparato tutto ciò che un ragazzino non deve, ma in compenso ho potuto imparare a memoria centinaia e centinaia di poesie che mi hanno permesso di mangiare di più e meglio dei miei compagni. Adorano certi adulti le poesie, soprattutto dalla bocca di ragazzini innocenti e da adulto sono le poesie che mi danno da vivere, ti piacciono le mie poesie, vero Mafalda? Dimmi che ti piacciono, dimmelo, chiedimi di recitartene altre, o pensi che mi sia invaghito di te, della tua bellezza?
Non sei altro che una vecchia schifosa avvizzita e ignorante, non vuoi ascoltare le mie poesie, vuoi soltanto che ti scopi? Ecco tolgo via la sciarpa dai tuoi occhi, ecco guardati allo specchio, sei brutta, sei vecchia, sei indecente nella tua nudità.
E adesso guardami, ammira il mio gioiello e dimmi se non sono bello!”
Mafalda era atterrita, tremava, ma questa volta di paura e non certo di ebbrezza d’amore, quell’individuo era un mostro, un pazzo mostro che si stava scatenando contro di lei, perchè proprio lei?
Eppure era stata gentile, le aveva aperto la porta di casa e della camera da letto!
Incominciò a piangere, dapprima sommessamente e poi singhiozzando lo pregava di andarsene, di lasciarla stare.
Ottenne l’effetto contrario: più lo pregava di smettere e più lui si esibiva.
Egli era nudo con la sciarpa di seta blu al collo e muoveva il pene eretto a mò di microfono recitando con sussiego i versi di “ Madrigale d’estate” di Federico Garcia Lorca.
“ Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
colore della tua carne campagnola
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei data a me, luce bruna?
Perchè mi desti pieni
d’amore il sesso di giglio
e i seni sonori?
Fu per la mia tristezza?
(Oh, i miei goffi passi!)
Forse destò pietà in te
la mia vita spenta di canti?
Perchè non hai preferito ai miei lamenti
le cosce sudate
di un san Cristoforo contadino
pesanti in amore e belle?
Danaide del piacere sei con me.
Femminile Silvano.
I tuoi baci odorano come il grano
secco dell’estate.
Oscurami la vista col tuo canto.
Sciogli la tua chioma
dispiegata e solenne come un manto
d’ombra sopra i prati.
Dipingimi con la bocca insanguinata
un cielo d’amore,
su un fondo di carne, la stella
violetta del dolore.
Prigioniero è il mio pegaso andaluso
dei tuoi occhi aperti,
e volerà desolato e assorto
quando li vedrà morti.
Anche se tu non m’amassi, t’amerei
per il tuo sguardo cupo
come l’allodola ama il giorno nuovo
per la rugiada.
Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Lasciami sotto il giorno chiaro
consumare la mela.”
Mafalda si divincolò nel momento in cui l’uomo le si avvicinò brandendo un paio di forbici da cucina sotto il suo seno, ormai era giunta a un tale stato di disperazione e terrore che la voce le moriva in gola, si rendeva conto di essere completamente sola e in balia di un perfetto sconosciuto che voleva assassinarla e in maniera così cruenta! Aveva le mani legate e quindi tentò di spingere le gambe e i piedi contro Mauro che rideva recitava versi e rideva e minacciava di tagliarle i capezzoli. L’immagine di quel pene penzolante sotto la sua testa la faceva inorridire, e pensare che lo aveva desiderato tanto, aveva gemuto supplicato per averlo dentro le sue viscere e ora quello stesso oggetto di desiderio era per lei una tortura allucinante. Sentiva di non avere vie di scampo, chiamare qualcuno? E chi? E come? Tutti questi interrogativi le attraversavano la mente ma la voce per gridare non veniva fuori.
Sentì allora che la fine era vicina, sarebbe morta in quel letto disfatto e sporco di sangue e di urina che fluiva incontrollata…
“ Madonna mia aiutami, madre mia aiutami, fa’ che questo bruto rinsavisca e mi lasci vivere, oppure fammi morire adesso subito e che io non soffra così tanto nella vergogna di essere caduta così in basso!”
“ Ti piacciono le mie poesie, ti piace il mio pene, ti piaccio io? Mi vuoi? Eccomi, prendimi donnaccia, prendimi se ci riesci! Siete tutte uguali voi donne, siete tutte uguali insensibili al vero amore, volete essere penetrate e nient’altro!”
“ Ti prego lasciami stare, ti giuro che se mi sleghi e vai via non ti denuncerò, ho capito sai che soffri per l’abbandono di tua madre ma ora devi calmarti, ti prego slegami i polsi, dai Mauro dai fai il bravo bambino.”
Queste parole scatenarono nel bruto l’effetto un disperato pianto a dirotto, si mise a sedere sul bordo del letto, si aggrappò alle ginocchia di Mafalda e singhiozzando la chiamava mamma.
Quella madre che tanti anni addietro lo aveva abbandonato lasciandolo in balia di assurdi capricci di adulti in quello squallido orfanotrofio…
Il corpo straziato e putrefatto di Mafalda fu ritrovato soltanto dopo tre giorni dalla donna delle pulizie.
Mafalda
Come ogni mattina Mafalda, subito dopo aver sorseggiato il caffè, accendeva la prima sigaretta con voluttuosa avidità e incurante del disordine in cucina si sedeva alla scrivania e tramite il computer si collegava a facebook e chattava con il tizio che diceva di chiamarsi Mauro e con cui aveva stabilito da tre giorni una fitta conversazione.
Nonostante i settant’anni passati Mafalda era una donna dinamica ardimentosa, di aspetto ancora giovanile, nonostante le rughe marcate che le solcavano il viso e che non voleva eliminare.
Non si era mai sposata e non aveva avuto figli.
La foto del profilo di Mauro mostrava un uomo giovanile di età non definibile, un paio di occhiali scuri ne nascondevano lo sguardo e un sorriso accattivante guardava la donna sempre più attratta e il momento tanto atteso dell’incontro stava per arrivare.
Quanta emozione quel sabato sera, lui sarebbe passato a prenderla per andare in un noto locale della città dove avrebbero cenato e anche ballato.
Aveva indossato l’abito nero con le paillettes sotto la pelliccia di visone; il viso ben truccato poco nascondeva quelle fitte rughe ma, in compenso, Mafalda aveva una dolcezza nei lineamenti e un sorriso largo e intrigante, era sicura di sé, era convinta di sapere esattamente ciò che poteva piacere a un uomo.
Al citofono la sua voce era carezzevole e s’illuminò quando vide Mauro che le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra. Mafalda ne fu conquistata.
La cena a lume di candela, un bicchiere e poi un altro e poi un altro ancora di frizzante fresco vino bianco, una canzone di Mina fecero sì che Mafalda fosse bella e stracotta; quell’uomo dallo sguardo rapace l’aveva soggiogata, poteva chiederle qualunque cosa, ella sarebbe capitolata.
Ballarono e le mani di Mauro scivolavano lentamente sulla nuca e piano piano fin giù lungo la schiena, scuotendo Mafalda fin dentro le viscere, chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quell’incantesimo, paventando il momento che tutto potesse finire, e fu così che senza alcun ritegno gettò alle ortiche la sua avvedutezza e ogni forma di diffidenza. Che male poteva farle una persona così gentile e sensibile che le sussurrava alle orecchie i versi delle più belle poesie degli autori a lei tanto cari. Si capiva che Mauro era un uomo colto, riteneva a memoria i versi di Emily Dickinson, di Emily Bronte, di Saffo e poi ancora di Federico Garcia Lorca, di Pedro Salinas, di Pablo Neruda, di Anais Nìn e altre perle di dolcezza e di struggimento senza fine.
“ Se fossi mia davvero
di gocce d’acqua vestirei il tuo seno
poi sotto i piedi tuoi
veli di vento e foglie stenderei…..”.
Mafalda sentì cedere tutte le sue riserve e con estrema naturalezza lo invitò a trascorrere la notte da lei a casa, in quel lettone che mai nessun uomo aveva fino ad allora accolto.
Il letto del pianto lo aveva sempre definito, ma adesso sarebbe diventato il letto della gioia, dell’estasi, sì perchè estasi era ciò che Mauro le stava facendo provare.
Mentre in cucina Mafalda preparava il caffè, Mauro si aggirava disinvolto per le stanze di quella casa arredata con raffinatezza; dipinti d’autore, sculture di bronzo lumi antichi, porcellane preziose e tanti altri oggetti di pregio che la donna aveva accumulato nel tempo, molti dei quali ereditati dalla famiglia di cui ella era rimasta l’unica superstite. Sulla scrivania in camera da letto un portagioie traboccava di collane orecchini anelli spille e braccialetti di tutte le fogge e con diverse pietre preziose; Mafalda amava molto adornarsi di gioielli. Le sembrava un atto dovuto a se stessa per compensare quei solchi al viso, solchi impietosi a ricordarle il tempo che passava inesorabile e lento.
Una soffice vestaglia di seta beige , poche gocce di profumo e un vassoio d’argento con due tazzine colme di caffè erano il preludio a una notte indimenticabile.
Si adagiarono sul letto, lui la tenne stretta tra le braccia, la baciò a lungo lentamente, la sentiva fremere e spasimare e ancora altri versi mormorava nelle orecchie della donna che gemeva gemeva e supplicava un contatto più intimo.
Mafalda si sentiva coinvolta, aveva perso ogni inibizione, incominciò a toccarsi a toccarlo ma lui ancora la faceva aspettare, perchè perchè lei chiedeva, prendimi, ti voglio ti prego ti prego.
“ Facciamo un gioco Mafalda, vuoi?”
“ Sì, sì fai ciò che vuoi, ma ti prego amami, fammi godere!”
Mafalda era accaldata, sudava e spasimava sempre di più ; Mauro la bendò con la sciarpa di seta blu che aveva al collo, le legò i polsi alla spalliera del letto di ottone e incominciò a recitare.
“ Sai Mafalda, da bambino cantavo nel coro della chiesa e mia madre mi ha fatto studiare per diventare tenore, mi ha sempre detto che con la mia voce potevo far miracoli e che sarei diventato famoso come Enrico Caruso. Sì, ma poi mi ha lasciato per andare con un altro uomo che non era mio padre, mi ha lasciato la sgualdrina, mi ha abbandonato e ho vissuto in un orfanotrofio. Qui ho imparato tutto ciò che un ragazzino non deve, ma in compenso ho potuto imparare a memoria centinaia e centinaia di poesie che mi hanno permesso di mangiare di più e meglio dei miei compagni. Adorano certi adulti le poesie, soprattutto dalla bocca di ragazzini innocenti e da adulto sono le poesie che mi danno da vivere, ti piacciono le mie poesie, vero Mafalda? Dimmi che ti piacciono, dimmelo, chiedimi di recitartene altre, o pensi che mi sia invaghito di te, della tua bellezza?
Non sei altro che una vecchia schifosa avvizzita e ignorante, non vuoi ascoltare le mie poesie, vuoi soltanto che ti scopi? Ecco tolgo via la sciarpa dai tuoi occhi, ecco guardati allo specchio, sei brutta, sei vecchia, sei indecente nella tua nudità.
E adesso guardami, ammira il mio gioiello e dimmi se non sono bello!”
Mafalda era atterrita, tremava, ma questa volta di paura e non certo di ebbrezza d’amore, quell’individuo era un mostro, un pazzo mostro che si stava scatenando contro di lei, perchè proprio lei?
Eppure era stata gentile, le aveva aperto la porta di casa e della camera da letto!
Incominciò a piangere, dapprima sommessamente e poi singhiozzando lo pregava di andarsene, di lasciarla stare.
Ottenne l’effetto contrario: più lo pregava di smettere e più lui si esibiva.
Egli era nudo con la sciarpa di seta blu al collo e muoveva il pene eretto a mò di microfono recitando con sussiego i versi di “ Madrigale d’estate” di Federico Garcia Lorca.
“ Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Sotto l’ora solare del mezzogiorno
morderò la mela.
Fra i verdi ulivi della collina
c’è una torre moresca,
colore della tua carne campagnola
che sa di miele e d’aurora.
Mi offri nel tuo corpo ardente
il divino nutrimento
che dà fiori al ruscello quieto
e stelle al vento.
Come ti sei data a me, luce bruna?
Perchè mi desti pieni
d’amore il sesso di giglio
e i seni sonori?
Fu per la mia tristezza?
(Oh, i miei goffi passi!)
Forse destò pietà in te
la mia vita spenta di canti?
Perchè non hai preferito ai miei lamenti
le cosce sudate
di un san Cristoforo contadino
pesanti in amore e belle?
Danaide del piacere sei con me.
Femminile Silvano.
I tuoi baci odorano come il grano
secco dell’estate.
Oscurami la vista col tuo canto.
Sciogli la tua chioma
dispiegata e solenne come un manto
d’ombra sopra i prati.
Dipingimi con la bocca insanguinata
un cielo d’amore,
su un fondo di carne, la stella
violetta del dolore.
Prigioniero è il mio pegaso andaluso
dei tuoi occhi aperti,
e volerà desolato e assorto
quando li vedrà morti.
Anche se tu non m’amassi, t’amerei
per il tuo sguardo cupo
come l’allodola ama il giorno nuovo
per la rugiada.
Unisci la rossa tua bocca alla mia,
o Estrella gitana!
Lasciami sotto il giorno chiaro
consumare la mela.”
Mafalda si divincolò nel momento in cui l’uomo le si avvicinò brandendo un paio di forbici da cucina sotto il suo seno, ormai era giunta a un tale stato di disperazione e terrore che la voce le moriva in gola, si rendeva conto di essere completamente sola e in balia di un perfetto sconosciuto che voleva assassinarla e in maniera così cruenta! Aveva le mani legate e quindi tentò di spingere le gambe e i piedi contro Mauro che rideva recitava versi e rideva e minacciava di tagliarle i capezzoli. L’immagine di quel pene penzolante sotto la sua testa la faceva inorridire, e pensare che lo aveva desiderato tanto, aveva gemuto supplicato per averlo dentro le sue viscere e ora quello stesso oggetto di desiderio era per lei una tortura allucinante. Sentiva di non avere vie di scampo, chiamare qualcuno? E chi? E come? Tutti questi interrogativi le attraversavano la mente ma la voce per gridare non veniva fuori.
Sentì allora che la fine era vicina, sarebbe morta in quel letto disfatto e sporco di sangue e di urina che fluiva incontrollata…
“ Madonna mia aiutami, madre mia aiutami, fa’ che questo bruto rinsavisca e mi lasci vivere, oppure fammi morire adesso subito e che io non soffra così tanto nella vergogna di essere caduta così in basso!”
“ Ti piacciono le mie poesie, ti piace il mio pene, ti piaccio io? Mi vuoi? Eccomi, prendimi donnaccia, prendimi se ci riesci! Siete tutte uguali voi donne, siete tutte uguali insensibili al vero amore, volete essere penetrate e nient’altro!”
“ Ti prego lasciami stare, ti giuro che se mi sleghi e vai via non ti denuncerò, ho capito sai che soffri per l’abbandono di tua madre ma ora devi calmarti, ti prego slegami i polsi, dai Mauro dai fai il bravo bambino.”
Queste parole scatenarono nel bruto l’effetto un disperato pianto a dirotto, si mise a sedere sul bordo del letto, si aggrappò alle ginocchia di Mafalda e singhiozzando la chiamava mamma.
Quella madre che tanti anni addietro lo aveva abbandonato lasciandolo in balia di assurdi capricci di adulti in quello squallido orfanotrofio…
Il corpo straziato e putrefatto di Mafalda fu ritrovato soltanto dopo tre giorni dalla donna delle pulizie.
Giuditta Abatescianni ha pubblicato tre libri e ha collaborato in sette antologie. Ho ricevuto numerosi riconoscimenti e premi, il quotidiano la repubblica ha recensito i suoi tre libri.
U maleverme, edito da Progedit; Frammenti di cuore, edito da WIP, Pennellate baresi edito da Palomar