Non ho scattato foto, nel mio viaggio in Siria. Adesso me ne dispiace, è come scoprire di non avere conservato nessuna immagine di una persona cara che non c’è più.
In compenso, finiti da tempo i pistacchi e anche il sapone scuro fatto con l’olio di alloro, conservo come reliquie alcuni oggetti: una tovaglia copritavolo ricamata, di scarso valore ma d’effetto, presa al volo nel suq di Aleppo al termine della visita e che adesso sta, impallidita, sul piano di marmo della tavola in cucina; un paio di asciugamani da bagno comprati in una bottega artigiana di Hama, vicino alle grandi Norie, e ho ancora negli occhi gli splendidi colori di certe sete tessute a mano che vi ho ammirato. Oggetti che ogni giorno mi appaiono come un monito.
Ci sono stata, in Siria, nel febbraio del 2010, un anno prima della rivolta che avrebbe dato inizio alla guerra civile. Viaggio organizzato tra un gruppo di amici, una decina di giorni in tutto: Damasco, Aleppo, Apamea, Hama, Palmyra. Ci eravamo spinti nel deserto siriano fino a Mari, vicino al confine iracheno, e avevamo trovato anche il tempo di una puntata nella libanese Valle della Bekaa, per vedere le rovine di Baalbeck. Ci eravamo fermati al Krak dei Cavalieri, la poderosa fortezza crociata eretta a presidio del valico di Homs. Al Krak eravamo arrivati sfidando una giornata freddissima di vento e pioggia, avevamo percorso corridoi, attraversato cortili, ci eravamo arrampicati sugli spalti e affacciati dalle mura merlate prima di rifugiarci semicongelati in un locale caldo e accogliente lì vicino.
Oggi la Valle della Bekaa, già allora controllata da Hezbollah, è il quartier generale delle truppe sciite libanesi che appoggiano i governativi. La fortezza è stata bombardata. Palmyra, gioiello del deserto, meta per eccellenza dei percorsi turistici e sicura fonte di introiti per il paese, è stata aggredita e sconciata nel modo che sappiamo, l’anziano direttore del Museo decapitato e il suo cadavere indegnamente esposto a diffondere il terrore e testimoniare la vittoria del fanatismo. Aleppo, perla della Siria, una città di oltre due milioni di abitanti, è ora un cumulo di macerie: il suo suq andato a fuoco, distrutta la cittadella, distrutte le moschee, le madrase, distrutti i caravanserragli, gli hammam, azzerata la ricca e vitale economia. Tutta la sua popolazione, le donne eleganti e contegnose, i bellissimi ragazzi dagli stupendi occhi chiari, i vecchi, i bambini, fuggiti per trovare scampo: la città, svuotata e rasa al suolo, non esiste più.
Mohamed, la guida siriana che ci aveva accompagnati con garbo e professionalità, e aveva comperato per noi certi deliziosi biscotti al pistacchio di cui noi donne del gruppo eravamo tutte golose, adesso sta in Turchia, mi hanno detto. Non so niente della sua famiglia, delle figlie di cui ci aveva parlato tante volte. L’angoscia prende alla gola, al pensiero.
Quando ci sono stata, in Siria, nemmeno nell’anticamera del cervello mi era passata l’idea che di lì a poco sarebbe accaduto quello che è accaduto, anzi che accade, provocando un esodo di tali proporzioni da avere pochi termini di paragone nella storia. Me ne viene, dalla mia inconsapevolezza, come un inspiegabile senso di colpa, e una sorta di vertigine al pensiero che tutto, ma proprio tutto ciò che appare solido intorno a noi, tutte le nostre sicurezze, il nostro lavoro, la nostra città, la nostra casa, gli oggetti, le abitudini di vita potrebbero sparire dall’oggi al domani e noi ritrovarci soli e sperduti nel mondo, senza più alcun punto di riferimento. Un pensiero che genera “un terrore di ubriaco”, per dirla con le parole di Montale.
Eppure è stata e continua a essere l’esperienza di milioni di uomini e di donne, e credo che dovremmo riflettere su questa realtà, che per ora non ci tocca ma in futuro chissà, e cercare di trarne un insegnamento utile, per dare il giusto valore alle cose.