Vivere in una società individualista, dove l’Io diventa metro e misura dell’etica
Ci hanno abituato a pensare e ad agire come monadi. Celebriamo il successo individuale, non sono concepibili fallimenti. Non sono concepibili limiti. Non ci sono più istanze collettive e politiche. L’Io diventa autosufficiente e l’unico metro di giudizio, l’unica misura dell’umano. Una chiusura e una mancanza di comprensione della realtà molto pericolose. Questo individualismo esasperato ha vari effetti, alcuni invisibili, che arrivano però a minare la stessa etica che fonda il nostro vivere sociale.
Il partire da sé è stato trasformato, deformato, come se la soluzione potesse risiedere dentro ciascuno di noi. La risposta dentro noi stessi. Come se la responsabilità fosse su noi stessi, come se non ci fosse relazione con altri. Monadi appunto, con diritti individuali che possono benissimo schiacciare quelli altrui, perché alla fine si lotta unicamente per il proprio benessere, felicità, successo, orticello di interessi. E se oggi decido che posso procurarmi un corpo che mi generi un bambino, risulta tutto regolare, l’ottica dell’io sopra ogni cosa prevale. Una società in cui ci sono rapporti di forza che prevalgono e vengono legittimati nel nome del desiderio. I bisogni solitamente non sono argomento gradevole, e quando si parla di bisogni che possono portare una donna a scegliere di essere la “portatrice”, l’involucro, solitamente si cerca di negarli, di imbellettarli con parole dolci, come dono altruistico. Anche il partire da sé non aiuta se c’è troppa distanza tra il farei e il “lo faccio”. Perché se l’ipotesi del mettere in pratica è remota, lontana, improbabile, forse perde forza, diventa un bel discorso di teoria. Non riusciamo a gestire emozioni e questioni molto più semplici, possiamo essere in grado di donarci e di mantenere il distacco? Cosa significa provare empatia? Cosa significa usare un’altra persona come mezzo? Cosa significa prendere possesso di un altro individuo, imponendogli doveri e regole per contratto? La questione di fondo non è impedire di, ma di ragionare sul contesto in cui queste nuove forme di business si sviluppano, in modo ampio, sulle ricadute che non sono solamente quelle del mettere al mondo un bambino.
Ci sono visioni diverse, inconciliabili, dopo tante discussioni mi sento avvilita e son giunta a questa constatazione, non c’è possibilità di conciliazione. Si tratta di definire quali sono le priorità, le regole, gli aspetti irrinunciabili, e se vogliamo combattere o meno le disuguaglianze. Si tratta di stabilire se vengo prima io come individuo o mi pre-occupo degli altri, che non sono a mia disposizione, che sono individui che hanno pari diritti, parimenti da tutelare. Anche perché non siamo tutte nella stessa situazione di partenza, culturale, economica e sociale. Quindi le norme servono a bilanciare, a difendere le parti deboli. Chiamarsi fuori significa il far west. Chiamarsi fuori significa accettare la sopraffazione come regola. E tutto questo spirito libertario non è altro che una chiara propensione a rendere la sopraffazione “normale” e utile.
Il mercato serve a rendere accessibili attraverso il solo mezzo del denaro questi nostri oggetti del desiderio. La produzione di individui, di diritti, come beni di consumo.
I diritti acquistabili. Quanto al chilo? Le norme e l’etica aggirabili e soggette al denaro che tutto può e tutto trasforma. Anche i diritti umani. E le donne che non vedono l’ora di immolarsi. Tanto per riportarci al ruolo di fattrici in serie, questa volta per altri. In alternativa possiamo sempre prostituirci. Questa cosa brucia tutte le lotte per i diritti e una vita dignitosa. Ma non tutti capiscono che è una trappola, almeno finché non riguarda loro. Non c’è lotta politica per questi diritti alla dignità e a un benessere diffuso. Non c’è lotta per tutte le donne che non hanno mezzi per sopravvivere o assicurare un futuro dignitoso a se stesse e alla propria famiglia. Non c’è lotta per un lavoro che non sia lesivo dei diritti umani fondamentali. C’è solo la favola del dono, che guarda caso finisce a mezzanotte quando la carrozza torna zucca e la realtà appare in tutta la sua crudezza e violenza. Non c’è lotta per noi donne che anziché diventare uteri da batteria, dovremmo avere un destino diverso. Poi ti accorgi che non c’è nessuno che lotta al tuo fianco, che non sei difesa e sostenuta da nessuno, e che coloro che dovrebbero farlo tacciano di ipocrisia coloro che non accettano di cedere di fronte a questo abuso dei corpi delle donne. I diritti delle lavoratrici sono calpestati impunemente e guarda caso si è casualmente aperti all’idea di mettere a disposizione i corpi delle donne altruisticamente. Ho la sensazione che si stia cercando di regolamentare qualcosa che potrebbe avere ricadute enormi.
Il diritto o la contrattualizzazione che prevede di impossessarsi delle donne e sottrargli diritti, come se ogni donna godesse delle stesse condizioni di vita e che la sua autodeterminazione non possa essere limitata e inficiata proprio da una condizione di contesto non favorevole e di estremo bisogno. Vi ricordate di noi donne solo quando serviamo, siamo utili al business, a vendere e a commercializzare qualcosa, a ri-produrre la specie, parlate della nostra autodeterminazione solo quando è utile a produrre eredi, ma guarda caso non vi va più bene quando vogliamo decidere se interrompere una gravidanza e non vedo più tanta gente che combatte per le nostre scelte. Andiamo bene solo quando siamo mansuete e d’accordo con i vostri piani di oggettivazione. Lasciate che la precarietà sia la norma e naturale. Ci state suggerendo che non ha senso lottare per un lavoro dignitoso, che finché ce la facciamo dobbiamo sfruttare il nostro corpo. Nessuna prospettiva civile ed eticamente accettabile, solo sfruttamento e tanta ipocrisia. Solo perché tanto a voi non potrà mai accadere di aver bisogno. Ah, naturalmente non sto parlando di bisogno di trasmettere i geni di famiglia o di avere figli su ordinazione. Parlo di bisogno di sopravvivere e di campare. Tanto mai vi capiterà di dover cedere sui vostri diritti, che il vostro corpo e la vostra persona siano violati.
Dovremmo interrogarci sul fatto che si pensi di acquistare l’uso di un altro corpo, distaccandosi emotivamente e praticamente da quella persona che non è solo un corpo, un utero, una volta raggiunto lo scopo, una volta ottenuto il prodotto “oggetto” del contratto, in questo caso un bambino. Sono profondamente convinta che se ci fosse una relazione parentale o amicale forte, anziché una intermediazione commerciale, per cui una volta saldato il conto non si è tenuti a mantenere in piedi alcuna relazione con la donna “portatrice”, le questioni cambierebbero profondamente. Penso che poter accedere a un servizio “anonimo”, in cui tutto si chiude con la transazione commerciale/contrattuale, senza implicazioni emotive e relazionali vive, sia il vero fattore che porta a scegliere questa strada. Non esiste la relazione, ma singoli individui che desiderano e esaudiscono i propri desideri. E dall’altra parte le donne e i bambini, i cui bisogni diventano oggetto di un contratto, oggettivati come se fossero beni disponibili. Nessuna complicazione, in un mondo fatto di singole individualità che non amano preoccuparsi degli altri. Si parla tanto di dono altruistico e di relazioni solidali, ma a questo punto mi chiedo il perché fiorisca un business in un contesto che viene rappresentato così. In una realtà in cui le disuguaglianze e la sopraffazione abbondano, si espandono, si affermano e chiedono di essere legittimate e normalizzate, mi chiedo che senso abbia parlare di libertà e di autodeterminazione. Solo decontestualizzando si può teorizzare questa libertà di scelta, aprioristica. Il problema è come si definisce la libertà di una scelta, da quale punto di vista parli e chiami libera una scelta. È un problema di collocazione e di comprensione del contesto, di come gli individui si collocano e si percepiscono, in relazione o separati dal resto del tessuto sociale. Da qui poi deriva anche il concetto che si attribuisce al diritto.
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