Avevo 24 anni quando sono partita per un viaggio in Nicaragua. Da sola. Era il 1988 e decisi di partire sola perché ero certa che essere sola avrebbe significato immergermi molto più facilmente in una realtà così diversa dalla mia. Volevo capire cosa significasse davvero quella parola, rivoluzione.
Partii con in spalla lo zaino con cui mio padre aveva fatto il militare, nei tasconi esterni tubi di latte condensato e vaschette di Nutella.
Fu un viaggio importante, formativo sotto tanti punti di vista. Ho imparato cosa vuol dire avere fame, sapere che la guerra ti porterà via almeno un figlio. Ho imparato cosa significa rialzarsi.
Ho imparato che non c’è una linea netta tra i buoni e i cattivi, che l’ideologia è spesso una trappola che confonde aspettative e relazioni. Ho sentito la forza delle donne. Ho scoperto persone meravigliose. Ho capito che credevo di sapere tutto e non sapevo niente. Ho visto la grinta dei ragazzi che tornavano dai combattimenti in montagna, con i mitra in mano e i sorrisi di chi si sente invincibile. Ho lavorato in un asilo dove pulivo con degli stracci la diarrea che scendeva lungo le gambe dei bambini, perché l’acqua c’era solo due giorni a settimana, e con uno straccio gli ho insegnato a giocare a bandiera.
Ho dormito con le pulci nel letto, ho bevuto l’acqua di pozzi sporchi tappandomi il naso e guardando il cielo per non vedere. Ho preso infezioni intestinali, pidocchi, la dolorosissima ameba e un’epatite alimentare. Certo, ho dovuto stare attenta, ero una ragazza quasi sempre in giro da sola. Ricordo che in un’isola c’era un tizio che mi seguiva ovunque e allora, dormendo in una specie di palafitta malandata, la notte utilizzavo un buco nel pavimento come bagno pur di non uscire nel buio. Ero curiosa, e un giorno mi sono spinta anche in una zona di guerriglia dove agli stranieri non era permesso passare. L’ho fatto una sola volta e ho capito subito che ero stata incosciente. Ho rischiato, ho attraversato la soglia, perché come quei ragazzi mi sentivo invincibile. Mi è andata bene. Si sbaglia, si impara.
Oggi viaggio con mio marito perché mi piace, perché il viaggio è una delle passioni che condividiamo, viaggio con le mie figlie ma potrei farlo da sola comunque. A cinquant’anni so di non essere invincibile e sono più prudente ma così come vado più piano in macchina e mi fido meno delle persone che non conosco. Ma il viaggio mantiene intatto per me il suo fascino esplorativo, anche interiore.
Le mie figlie hanno ereditato questa mia voglia di viaggiare, libere, e a volte sole.
Pago il prezzo dell’apprensione ma sono felice di saperle curiose del mondo e della vita.
Ho letto il post ”Ieri mi hanno uccisa” che la studentessa Guadalupe Acosta ha dedicato a Maria Coni e Marina Menegazzo, le due ragazze uccise mentre viaggiavano in Ecuador; neppure a loro hanno risparmiato i commenti sull’andarsela a cercare, come sempre accade quando una donna si prende uno spazio nel mondo da sola.
E invece noi questo spazio ce lo continueremo a prendere con la voglia di esserci, con i nostri corpi in movimento proprio come fanno gli uomini a cui nessuno si permette di dire te la sei cercata e dunque un po’ te lo meriti.
Ho letto il post e ho pensato a Pippa Bacca, vestita da sposa.
Voleva portare un messaggio di pace, è stata uccisa mentre faceva una cosa in cui credeva.
Non voglio ricordare la sua incoscienza, voglio ricordarmi la sua generosità, la sua giovinezza, la sua libertà.