BREVE STORIA DEL FUTURO DI JACQUES ATTALI
La mostra che commentiamo è promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, da Palazzo Reale e dalla casa editrice Electa, in collaborazione con i Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, dove è stata presentata per la prima volta fino a gennaio di quest’anno.
Frutto di un’operazione culturalmente innovativa e stimolante, rappresenta l’apparato testuale di sostegno a un saggio di Attali, pubblicato nel 2006 e rieditato nel 2016. Attali, economista e pensatore che seguiamo fin dal tempo di Bruits (1977), propone una concezione profetica del ruolo dell’arte, e in particolare della musica, nella società.
2050 Breve storia del futuro è parte di una iniziativa di nome Ritorni al futuro «un palinsesto culturale pensato per la primavera 2016 dal Comune di Milano che propone oltre cento appuntamenti tra mostre, concerti, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche e incontri, con l’obiettivo di portare al centro della riflessione pubblica l’idea di futuro che abbiamo oggi, confrontandola con quelle che hanno abitato il pensiero creativo in altre stagioni della storia».
La mostra contrasta in modo stridente con l’esposizione per il centenario della nascita di Boccioni, con cui è proposta in tandem. Non perché sia poco apprezzabile per la qualità o per la completezza del percorso proposto. Tutt’altro. Ma perché, come recita il sottotitolo Genio e memoria, si presenta come operazione culturale destinata a tramandare la memoria di un artista consacrato, molto legato a Milano, inserendolo in un percorso storico e culturale interessante, ma assolutamente déjà-vu, una formula consolidata che, oltretutto propone opere per i/le Milanesi tutt’altro che sconosciute. Insomma l’ennesima occasione celebrativa dell’ennesimo grande genio della Storia (maiuscola ovviamente ironica).
Prevedere e annunciare il futuro è lavoro d’artista – dice Attali – e quale sia il futuro che si prospetta è argomento per un lavoro di approfondimento culturale e per la progettazione di un evento culturale nuovo e tutt’altro che trascurabile. Il cervello si accende, il desiderio di arricchirsi di visioni di futuro si fa intenso e non va deluso.
Partiamo dall’intervista che ac
compagna l’ottima guida alla mostra, in cui Jacques Attali pone una sorta di dicotomia fondamentale per la comprensione della profezia: Geremia vs. Ezechiele nell’antico testamento. Geremia, profeta di sventure, incarcerato perché annunzia un destino indesiderabile alla sua gente, che sconta l’accusa di aver in qualche modo contribuito a far avverare (una sorta di iettatore patentato alla Totò) si oppone a Ezechiele, capace di proclamare un ideale di speranza.
Ora, è chiaro che la mostra si pone decisamente sul versante della geremiade e ci addita tutte le possibili sciagure contemporanee: consumismo, turbocapitalismo, declino dell’Impero americano – che in realtà prelude all’assimilazione a un modello culturale unico – diseguaglianze economiche, tempo mercificato, corpo artificializzato dalla macchina, sovrappopolazione e iperconflitto, con le sue armi di distruzione di massa e la distorsione delle ideologie religiose. Argomenti appena appena più vasti di quelli di un normale TG quotidiano.
Le drammatiche profezie di Attali sono, dunque, più lucide analisi della contemporaneità che apocalittiche profezie. Il mondo contemporaneo vive le conseguenze negative di un libero mercato deregolamentato che conduce a diseguaglianze nella distribuzione delle risorse, a conflitti violenti, a dittature. Non vi si ravvisa affatto un’imprevedibile apocalisse, quanto un monito all’azione. Occorre agire, per il cambiamento. Ma come?
La ricetta per l’azione è molto meno chiara ed esplicitata nelle opere in mostra, soprattutto riguardo al passaggio dalla lucida analisi del mondo contemporaneo all’avverarsi dell’iperdemocrazia, vista da Attali come quinta ondata del futuro, ovvero realizzazione di un mondo migliore, grazie al superamento dell’individualismo in favore di una concezione altruistica, in cui ciascuno aiuta gli altri a realizzarsi. Una tendenza già presente, dice sempre Attali, nel ruolo importante giocato dalle ONG nella politica contemporanea e dal giovanile impulso a salvare il mondo impegnandosi per la giustizia sociale e la pace.
Ma questa Pars construens riguardo al futuro è veramente molto meno rappresentata nelle opere scelte, che, sintomaticamente, mostrano più un ritorno all’artigianalità che una tendenza alla realizzazione innovativa e tecnologicamente avanzata. I mezzi espressivi scelti sono quindi i meno adatti a proiettare aspettative di progresso, di rivoluzionarie innovazioni scientifiche, di un pensiero che vede l’avanzamento delle scoperte scientifiche come progresso per l’umanità.
In questo senso si tratta davvero di un ritorno. Di un ripiegamento. Di tornare a fare con le mani, come nel delicato e infantile sogno di Bodys Isek Kingelez di una città fantastica costruita con il cartone. Insomma, una tendenza regressiva, un’energia che si ripiega su se stessa e implode, più che proiettarsi dinamicamente nella costruzione di un mondo nuovo.
Le lettrici e i lettori giudicheranno, visitando la mostra, se tale impostazione le/li soddisfi. Raccomandiamo loro di seguire attentamente la lunga videoinstallazione The feast of Trimalchio di AES+F, lavoro che ha notevoli motivi di fascinazione e da solo vale una visita.
La nostra riflessione critica verte sulla selezione degli autori e delle autrici operata da Pierre-Yves Desaives e Jennifer Beauloye. A un’analisi dettagliata, il gruppo degli artisti e delle artiste presentate risulta così composto: 5 donne, per una percentuale del 10% circa delle opere scelte, 2 collettivi, e per il resto uomini, provenienti da Europa e Stati Uniti, per una percentuale superiore al 50%. Quanto all’età, gli artisti rappresentati in questa mostra, tutti contemporanei viventi e non, per più della metà sono nati prima del 1960, mentre Attali, nato nel 1943, ha passato la settantina.
Noi dubitiamo che la costruzione del futuro dell’umanità possa corrispondere all’immagine del maschio occidentale di età superiore ai sessant’anni. Questo è più il profilo dell’uomo di potere, responsabile del disastro contemporaneo così chiaramente rappresentato nella mostra. Per cambiare il mondo occorrono altre scelte.
Noi, a un gruppo con una così bassa percentuale di donne, di giovani e di artisti extraeuropei, non demanderemmo neppure la progettazione della nostra prossima vacanza.
Le cinque opere di autrici femminili presentate in questa mostra hanno un peculiare carattere comune. Fatte con ago e filo, mostrano visibilmente le cuciture fra le parti, come la Fragile Venere arcaizzante di Louise Bourgeois; sono tappeti che shiftano disobbedienti sotto ai nostri piedi, bandiere nazionali rese composite, sfrangiate e tintinnanti come scialli egiziani. Propongono un mondo ibridato di orrore e tenerezza come quello costruito con diversi media da Tracey Snelling o ricostruito da Jennifer Brial in blu cobalto, con un omaggio a un pensatore e artista veramente innovativo e profetico, Richard Buckminster Fuller, autore della Dymaxion Philosophy e pronipote di Margaret Fuller, una delle protagoniste del Risorgimento italiano, che purtroppo pochi conoscono.
E siccome, come si sa, siamo di parte, v’invitiamo a visitare questa mostra anche per la qualità dei pochi lavori femminili presentati e per il suo assunto, per noi in parte disatteso: l’arte è occasione, strumento e stimolo al cambiamento sociale. Ma per questo ci vorrebbe una maggior dose di femmifuturologia. E un bel po’ di eurocentrismo in meno…
Lartediparte[@]gmail.com