L’ho persa! Non l’ho fermata e se n’è andata. Sarebbe bastato un «Aspetta!» ma non l’ho detto. Dalle mie labbra nulla è fuoriuscito.
di Ombretta Brondino
La voce non mi sostiene in certe circostanze, il fiato non giunge nella dovuta quantità e l’intenzione rimane lì bloccata da una sorta di sbarramento fisico. Avrei dovuto oltrepassare quell’ostruzione vocale. E invece sono rimasto lì, anzi qui, sdraiato su questo divano a fissare il vuoto e a meravigliarmi di quanto il corso degli eventi possa essere drammaticamente trasfigurato dall’assenza o dalla presenza di una semplice parola, un gesto. Io quel gesto non lo compio quasi mai e la voce, quella stronza, mi si strozza dentro. Il fatto è che, negli ultimi anni, fatico a ricordare qualcosa che ho desiderato con vero ardore. A parte Marta.
Lei entrò in questo mio mondo fatto di ostinata solitudine circa un anno fa. Ricordo che il pomeriggio precedente la nostra prima uscita mi tormentai con pensieri ossessivi e assillanti che non mi diedero tregua un solo istante. Pensai a come mi sarei vestito, cosa avrei detto, dove l’avrei portata a cena e, soprattutto, se me la sarei portata a letto. Sì insomma un’occasione così, dopo anni di autoerotismo solitario, beh, dove ti capita? Il mio amico Renzo poi non mi avrebbe dato pace in caso contrario.
«Ma dimmi com’è?» insisteva lui ogni giorno al telefono.
«È una donna Renzo, una donna come tante. Che ne so com’è. Carina, sì, carina direi» dopo una tale banalissima risposta Renzo, visibilmente insoddisfatto, attaccava con le sue raccomandazioni come se ne avessi avuto bisogno. Un gioco divertente quello tra noi ma fine a se stesso. Ad un certo punto, sempre quel pomeriggio, sfinito dalle sue inutili domande, mi sottrassi, con la mia proverbiale eleganza, come se mi sfilassi da un tubo diventato improvvisamente stretto e claustrofobico. Sottrarmi è una mia un’abitudine collaudata.
Tornando a quel sabato, ricordo che continuai a torturarmi «Ma perché le ho detto sì? Avrei dovuto trovare una scusa, una delle mie solite vie di fuga, quelle che uso con chiunque, totalmente privo di sensi di colpa o quasi, quando vengo colto da questa indescrivibile inerzia e invece nulla. Ad un certo punto della conversazione telefonica precedente la nostra uscita le dissi «Certo vediamoci pure sabato. Ti va se ceniamo fuori?» Come un cretino non riuscii ad evitare di pronunciare quella frase e «BUM» pensai «Ora sei fottuto! Ti tocca uscire, essere carino con lei e magari anche riportarla a casa dopo cena. Ma non potevo essere un po’ meno galante? Che ne so, un caffè, un semplice e indolore aperitivo in centro? No. LA CENA. Sei un cretino e un masochista, Carlo!»
«Ora vai a prenderla, offrile la cena, le solite chiacchiere di convenienza su famiglia, lavoro, abitudini culinarie, preferenze di vacanze, figli non figli, hobbies, le storie sbagliate e poi?» Ripetei quel copione a me stesso come per convincermi che la serata sarebbe stata convenzionale come molte di quelle che annoverai nei miei primi tempi successivi alla separazione da Federica. In quegli anni ero diverso, molto diverso. Amavo la gente, il rumore e soprattutto le donne. «Ora non le conosco più, non mi fido dei loro sorrisi, penso sempre che mi chiederanno qualcosa e proprio non ce la faccio».
La gamma dei pensieri fu vasta e variegata quel sabato «Se la invito da me, dopo cena, passo per quello che vuole provarci subito, se non lo faccio, però, denoto disinteresse e scarsa sensibilità: ecco, cosa non sopporto delle uscite con le donne! Qualunque mossa tu faccia non è mai quella giusta» ribadii a voce alta, con incalzante falsa sicurezza.
Eppure, nonostante cercassi di sgonfiare le mie aspettative con quella masturbazione mentale, mi ritrovai in uno stato di pura eccitazione che mi fece sentire vivo come non accadeva da tempo. Forse troppo. La rassegnazione completa sopraggiunse nel momento in cui, guardandomi allo specchio, dissi a me stesso «Stavolta credo proprio che ti toccherà uscire, amico, e comportarti da gentleman. Con questa poi, non posso giocarmi la faccia: c’è mio fratello di mezzo e le sue “splendide” amiche. Meglio non fare casini. Vai e che Dio te la mandi buona!»
Eccomi in auto sotto casa sua in felpa e t-shirt; l’ho fatto apposta. Non posso presentarmi ad una donna in camicia e maglioncino casual, troppo ordinario ed io, per perfida ostinazione, amo rompere gli schemi. Agisco in modo volutamente diverso dalla massa, in molte occasioni, tranne quelle lavorative, per il semplice e perverso gusto di assaporare la sorpresa sul volto del mio interlocutore. Sono un pagliaccio da strapazzo con un’anima crudele e cinica.
Aspetto. La vedo comparire dal cancello di casa e penso, con concreto stupore, che infondo non si è fatta attendere poi molto.
La ricordavo carina, come l’avevo descritta a Renzo, ma carina non è l’aggettivo che le si addice. Marta è bella, di una bellezza fine, il suo portamento è elegante ma è lo sguardo a colpirmi. Il guizzo sorridente e scattante di una lepre le illumina gli occhi di quel verde palude per nulla snaturato o esaltato da ombretto e mascara. Spalanca la portiera della macchina, invade l’abitacolo con il suo inconfondibile profumo che sa di vaniglia e patchouli magistralmente amalgamati, e quel sorriso, che apre orizzonti lasciati morire nella memoria del tempo, mi incanta come un bambino davanti allo zucchero filato. Marta è una donna che sorride con lo sguardo e la bocca, senza quella volgare volontà di aggredire che va tanto di moda ultimamente. Lei è il suo sorriso.
I soliti convenevoli. Noto istantaneamente che, seppur nella sua iniziale comprensibile rigidità, mostra di sentirsi a proprio agio con il sottoscritto nonostante io sia molto abile nel porre in atto le mie solite strategie respingenti. Sono solito provocare l’allontanamento del mio interlocutore, uomo o donna che sia, per una qualche dinamica perversa che non oso sondare troppo a fondo.
«Allora? Dove andiamo di bello, Marta?» mi esprimo con tono nervoso e ironicamente sfidante. Non proprio il massimo per essere un primo appuntamento. Di norma, le donne si aspettano che sia l’uomo a prenotare il ristorante e che, da buon un cavalier servente, sia propositivo e traboccante di proposte allettanti. «Se non hai pensato a nulla io ho molti posti in mente in cui potremmo andare» ribatte lei pronta e scattante, sottolineando il suo spontaneo spirito d’iniziativa e la sua natura autonoma. «Molto bene allora guidami verso la meta ed io obbedisco». Confesso che speravo di coglierla in fallo e invece è lei a farlo con i suoi modi simpatici e diretti. Mi osserva mentre sono alla guida, studia i miei movimenti fintamente naturali e ascolta con attenzione le mie raffazzonate risposte alle sue curiose, incalzanti domande.
«Dimmi un po’ di te. Hai figli, giusto?». La prendo in giro da subito fingendomi un imputato al tribunale dell’inquisizione ma in realtà la mia è una tattica di difesa; la sua vivacità mi piace, mi coinvolge e, cosa ancor più incredibile, non mi annoia. Ma lei non deve accorgersene pertanto utilizzo l’ironia gentile ma pungente di chi sta agguantando tempo per osservare e studiare il proprio interlocutore. Mi ero dimenticato di cosa significasse interagire con una donna e ancora di più con una che possiede una testa pensante. Quest’ultima, devo ammetterlo, mi attrae molto più di un bel paio di tette.
Arriviamo in un ristorante del centro storico e, dopo essere entrati, la faccio accomodare al tavolo con accurata cortesia. Le buone maniere sono un retaggio famigliare di cui vado fiero e, in una circostanza come questa, esse sono in grado di sottolineare la sottile ma determinante differenza che passa tra un comune pollo e un gallo cedrone. Marta si accomoda al tavolo e, seduta di fronte a me, mi soccorre divertita nell’ingrato compito di leggere il menu delle portate visto che ho scordato a casa gli occhialetti da vista. Ormai l’età avanza e non fingo più la prestanza di un tempo. Sono giunto a quel genere di consapevolezza che mi concede una sana tregua con me stesso, sono come sono, odio gli splendidi e non fingo di essere altro da me. Ecco una delle mie tante conquiste raggiunte nel mio tempo di isolamento dal mondo. «Leggi tu, per favore, che io non ho gli occhiali!». Dico sornione e divertito ma anche in questo caso, Marta non si scompone «Certo! Non vedevo l’ora di leggere per te» Sorride divertita «Allora, ecco cosa offre il menu della casa questa sera».
Inizia a leggere con accuratezza ogni portata con aria gioiosa e per nulla intimidita, la osservo nel suo incedere sicuro, mi intenerisco davanti alle sue unghie da bambina colorate di un elegante rosso porpora e trovo quel suo fare, a metà tra il trendy e l’intellettuale, decisamente accattivante. Marta possiede un indiscusso fascino e sa perfettamente come esercitarlo sul sottoscritto. Me lo sento addosso. Non ero preparato ad incapparci dentro e soprattutto a sentirmene invaso.
«Nulla ti ferma eh Marta! »
«È un appuntamento Carlo o un banco di prova?» chiede lei con lieve fermezza e senza appesantire la conversazione «Figurati! E chi sarei io per metterti sul banco degli imputati? Devi avere pazienza, è davvero molto che non esco a cena con una donna e forse» qui metto in scena uno sfumato vittimismo «ho scordato un po’ di buone maniere». La mia ammissione di colpa apre il varco verso una seconda parte di cena decisamente più sciolta e meno vincolata al mio incorreggibile, ironico cinismo.
Maschero il mio disorientamento con aria imperturbabile ed inizio sinceramente a raccontare di me. «Gli ultimi tre anni della mia vita li ho trascorsi standomene volutamente solo. Dopo la separazione dalla mia ex moglie ho fatto troppi danni in giro, soprattutto con le donne, e sono arrivato al punto di non poterne più» Marta mi osserva assorta senza accennare segni di cedimento e incalza «Non hai più avuto storie in questi ultimi tre anni?» «No. Odio stare male e far star male le persone quindi meglio così, no? Almeno non ho combinato casini» ripeto forsennatamente come se dovessi convincere me stesso oltre che lei.
«Si ma tu? Tanta solitudine, per quanto curativa e chiarificatrice, ti rendi conto che può falsare la visione della realtà?» risponde lei denotando partecipazione al mio mood volutamente nero «La realtà è quella interiore, quella che ognuno ha dentro; ciò che vedi all’esterno è solo un ammasso di formalità alla quale non riesco più ad aderire» abbozzo io cercando di concludere il discorso lì.
Di solito, giunti a questo punto del copione, l’interlocutore indugia, mostra i primi segni di cedimento e indietreggia a piccoli passi. È in quel momento che provo un certo godimento, un intimo piacere nel non compiacere l’altro con risposte ovvie e canoniche. Amo mettere alla prova e sfinire con aneddoti distruttivi e impopolari ma stasera mi accorgo, con mia grande sorpresa, che nulla di tutto ciò sta accadendo dentro di me. Mi sto raccontando con un certo slancio e c’è chi ascolta empaticamente le mie parole senza avanzare giudizi ma con totale apertura ed interesse.
Il guaio però è che Marta, invece di arretrare, come previsto, si entusiasma, la sua curiosità cresce e allunga la mano fin laggiù, dietro ai miei occhi, dove a nessuno è concesso spingersi. Spesso nemmeno al sottoscritto. L’ascolto attivo è la sua arma migliore, nulla le sfugge, come a me del resto, ma tutto scivola via dal suo muro di convinzioni e sicurezze che sembrano chiedere «ma chi diavolo sei tu?» I suoi occhi interrogativi e i suoi silenzi mi fanno intendere che le parole si rivelino sempre meno indispensabili in questa nostra conversazione cui si alternano i sapori mediocri di una cucina piemontese non troppo stellata.
Occhi sfuggenti, i miei. Insistenti, i suoi. «Chi è lei?» Inizio a domandarmi mentre la osservo mangiare ed interagire con me. La cena continua tra le nostre molte parole. Mille. Mi stancano le parole, ho perso l’abitudine a farne tante e soprattutto ad ascoltarne il doppio. Sono stremato ma il pensiero di staccarmi da lei, lo confesso, mi disturba. «Non voglio sembrarti sgarbato» dico ad un certo punto, «ma non ne posso più di stare seduto qui. Che ne diresti di metterci comodi da me?» Questo invito fuoriesce inaspettato e si traduce in suono ma nemmeno io ho ancora dato il consenso a me stesso di avanzare una tale richiesta e quindi rimedio goffamente come posso «Non vorrei sembrati eccessivo o ineducato ma è che, dopo un po’ che sto fuori casa, sento la necessità di tornare in un luogo famigliare. Lì potremmo metterci comodi, c’è la mia musica, i miei gatti» e aggiungo «Giuro che non ti sfioro nemmeno con un dito, che ne dici?»
«Lì c’è tutto il tuo mondo da cui fatichi a staccarti» completa lei senza alcun sarcasmo. Marta mi fissa dritto negli occhi, calma e serena, cercando un appiglio là, oltre me, dove riesce ad approdare ormai da qualche ora. Indaga tra le rughe intorno ai miei occhi e con un movimento impercettibile allunga il collo e protende il suo busto verso la mia parte del tavolo come se volesse annusarmi e odorare la risposta. «Posso fidarmi o no di te?» sembrano dire i suoi occhi in ricerca. Ad un certo punto il verdetto «Ci sto Carlo. Vengo a casa tua, andiamo» e non soddisfatta «Decido di fidarmi di te».
La risposta mi spiazza «Ma come andiamo?» penso nella frazione di un nano secondo «Esce a cena con me, uno sconosciuto, senza usufruire del sostegno della solita inutile amica che in tante si portano dietro come fosse un cagnolino, e accetta, senza batter ciglio, il mio invito a casa dopo cena? Ma chi è questa? E poi questa dichiarazione di fiducia, decisamente troppo!».
Dopo circa una mezz’ora, entriamo in casa mia.
Marta soffre la mia guida, almeno così si ostina a ripetere, ma sono certo che le vere responsabili siano quelle mediocri acciughe al verde che ci hanno rifilato al ristorante. La faccio entrare, le apro la porta del mio mondo. «Che buon profumo di pulito c’è in casa tua» esclama lei quasi stupita «Le mie doti di casalingo sono davvero insuperabili. Sono un uomo colmo di loschi segreti e uno di questi riguarda il mio amore smisurato per il bucato» Marta sorride silenziosamente quasi a non voler rompere quell’atmosfera magica di scoperta. I miei gatti le girano intorno tenendosi a debita distanza ma lei li avvicina con lievità e dolcezza e i due felini subito iniziano a ronzarle intorno strusciandosi sulle sue calze nere; si allontanano e la avvicinano in una danza fatta di spassosissime, ambigue giravolte. Anche loro, come me, si chiedono chi sia questa intrusa.
Marta si guarda intorno con un’espressione a metà tra lo smarrito e il curioso e benché sia, senza alcun dubbio, una femmina di prim’ordine ci sono momenti in cui scorgo sul suo volto un’espressione bambina che la rende tenera; lei piccola non vuole smettere di fare la grande e si muove con cautela tra i miei divani. Un terzo gatto in casa mia, anzi, una gatta.
«Sai una cosa?» si gira fissando i suoi occhi dentro i miei «Cosa? Dimmi» Mi siedo accanto a lei sul divano e guardando il vuoto innanzi a me, dopo aver inondato l’atmosfera del mio salotto con lo stile inconfondibile di Chet Backer «Una donna stasera varca la mia soglia, è passato davvero troppo tempo dall’ultima volta, e improvvisamente mi accorgo di essermi perso delle cose» Lei continua a fissarmi in vigile ascolto «Perse o non perse poco importa; il fatto è che ora non vorrei essere in nessun altro luogo e soprattutto, non vorrei essere solo. Questa per me è una conquista».
«Non so nulla di te Carlo» dice furtivamente «ma comprendo quanto sia raro e strano per te dire certe cose per cui grazie per queste parole!»
L’atmosfera si scioglie con la complicità di una tisana calda che Marta implora per rimettere un po’ in sesto il suo stomaco e la musica, mia compagna fedele di serate e giornate trascorse in solitudine.
Il tempo con lei fugge via veloce e gli argomenti di cui parlare non sono di certo un problema come avevo creduto, ogni parola si sussegue all’altra con spontaneità. Con lei non fingo e in questa lunga serata insieme nemmeno il fumo mi faccio mancare e «infondo se ci dobbiamo conoscere è meglio uscire allo scoperto no? Nel bene e nel male. Il fumo è il mio momento, non tutti lo capiscono». Marta ascolta ma soprattutto mi scruta da vicino, è seduta accanto a me composta, con le gambe accavallate e con un fare lieve ma sensuale mi sfila la sigaretta dalle dita, se la porta alla bocca e fa un tiro.
«Ecco. Ti bacerei ora. Lo farei ma non sono lucido, sono stanco e annebbiato, un tale momento voglio viverlo limpidamente, con tutto me. Dio quanto sono romantico, ma cosa mi sta succedendo?» penso o dico sommessamente.
«Sono le due Carlo, dovresti riportarmi a casa se non ti spiace». La sfioro con gli occhi, la bacio con un pensiero, la seduco lasciandola andare «Si mi spiace» ammicco con ironia e poi aggiungo «Certo andiamo. È stato bello parlare con te, davvero bello».
Marta ricompare nel mio salotto due settimane dopo, sempre di sabato.
Il tempo che trascorriamo nuovamente insieme fluisce in modo molto più sciolto e divertente, al limite dell’eccitante. Con lei si parla, e pure troppo, ma si ride anche e di gusto. A me piace ridere. È un’altra delle cose che non sperimentavo da tempo.
Questa volta, andare a casa mia è istintivo. Lei entra, saluta i gatti, appende il cappotto. È a suo agio. Come lo sono io. Una donna di nome Marta entra in casa mia per la seconda volta ed io desidero esattamente questo. È femmina fino al midollo. Io la osservo e vedo ogni cosa fino laggiù, oltre i suoi occhi, dove lei non sa.
Frank Sinatra scalda la stanza con la sua voce ma è un’appendice. Marta si siede. Nessun vestitino vezzoso stasera. Jeans neri, camicia bianca e quel profumo che, da solo, la veste.
«Posso baciarti?» esce dalla mia bocca per puro desiderio. Mi sento un idiota alle prime armi ma desidero baciarla «avrei voluto farlo già prima, nella piazza illuminata all’uscita dal ristorante». Un sorriso è la sua risposta. La bacio. Mi bacia. Manca il fiato a lei per prima. Lo avverto distintamente.
I baci si susseguono, senza sosta. L’assaggio di quelle labbra è intenso e mi fa bramare di proseguire su tutto il suo corpo. Lei mi accompagna con naturalezza in quel viaggio e la sua fluidità nell’incedere mi fa sentire, ancora una volta, a casa.
Le mie mani s’insinuano sotto la camicetta dove accarezzo una pelle morbida e chiara come quella di un bambino. Chissà com’era da bambina? Lo so: le ho guardato gli occhi. Ma adesso è l’ora della donna.
La tocco, la bacio, m’insinuo dentro di lei e lei vibra come una corda. Il suo odore mi stordisce, lo imprimo nella mente, lo riconoscerei tra mille, credo, come quello dei miei figli. Il mio letto diventa un nido, il ring di una lotta, un tappeto di passione, il palco della messa in scena di una danza mistica e scabrosa allo stesso tempo. Un desiderio che si libera il mio, una forza creativa la sua. La faccio mia per ore, si concede a me senza chiusure: ci conosciamo con il passare dei minuti, dei baci, delle sere.
Odio definire tutto questo; ogni volta che ho tentato di farlo ho perso qualcosa. «Oh tesoro, ma è necessario definire cosa siamo?» affermo una sera simulando noncuranza persino con me stesso, «Che importa? Un’amicizia? Una frequentazione? Un affetto? Una storia? Non lo so. Di certo è un legame. Bello e puro». Ho iniziato così la mia corsa verso l’auto – sabotamento.
Stesso copione, stessa scena «Una cosa bella viene a me ed io metto in moto una serie di azione volte a distruggerla e disfarmene»
Marta è uscita da quella porta stamattina lasciando dietro sé la scia di un silenzio e una pace di cui mi sono riappropriato voracemente come se mi fosse stata tolta l’aria per respirare. Il mio connaturato egoismo e la mia natura distruttiva, ad un certo punto, hanno preso il sopravvento e, innanzi ad una sua legittima proposta volta a trascorrere la giornata piacevolmente insieme, ho arrogantemente sentenziato «Chi ti credi di essere per voler passare la giornata con me?». Lei mi guarda sbalordita, non crede alla sue orecchie «Carlo, ma stai dicendo a me?» mi interroga incredula «E a chi altrimenti?» sentenzio e infierisco con un sarcasmo duro e ostinato che sento crescermi dentro come un cancro «sei entrata nella mia vita e improvvisamente il mio poco tempo è diventato tuo? Non sono pronto, non ce la faccio!»
Marta ha imparato a conoscere le mie intemperanze ma non accetta la mia cattiveria gratuita e la mia aggressività improvvisa. Io sono anche questo però, è bene che lei lo sappia. Sono mesi che mi trattengo e non esplodo in una delle mie scene madri in cui l’ira, fine a se stessa, la fa da padrona. Lei sembra percepire questo uragano e guardandomi fisso negli occhi mi dice «Ora io esco da quella porta perché non ci sono parole per commentare questo schifo che mi stai per buttare addosso. Non credo di volere far parte di questa distruzione in cui cadi costantemente e triti dentro chiunque ti stia intorno. Tolgo il disturbo e non pretendo nemmeno le tue scuse. Vado lontano da te e da questa casa, almeno per ora. Ma fatti una domanda Carlo e decidi una buona volta chi vuoi essere e che genere di vita pensi di meritarti. Credi di poterti concedere amore e felicità o pensi sia roba da rivista patinata?»
Il suo tono di voce è alterato ma saldo. Tra me e lei sono io a non sapere ciò che voglio. Ferma e dignitosa, mi bacia con lo sguardo, si volta e inizia la sua discesa giù per le scale. Sento la porta del cancello sbattere con violenza e dopo pochi istanti il motore della sua auto accendersi.
L’ho persa? Non l’ho fermata e se n’è andata. Sarebbe bastato un «Aspetta!» ma non l’ho detto.
Dalle mie labbra nulla è fuoriuscito. Eppure lei ha la chiave ormai.