La violenza di genere, anzi le violenze, perché sono tante, dallo stalking allo stupro al femminicidio, non sono una pura questione di relazione tra la vittima e il suo carnefice, l’uomo mostro.
C’è molto di più. C’è un senso culturale trasversale, un continuum che lega la tortura dello stupro di massa in contesti estremi, bellici, alla violenza di genere come fenomeno sociale in tempo di pace. La violenza è una tattica politica, sempre, perché è sempre un’arma di dominio dell’alterità femminile in contesti culturali maschilisti patriarcali che considerano le donne semplicemente una proprietà degli uomini.
Lo stupro e la violenza sono sempre un mezzo per ripristinare o ribadire un potere, utilizzando a livello simbolico nei confronti delle vittime due categorie molto forti, la colpa e la contaminazione, su cui si fonda l’ideologia fallocentrica. Lo stupro è l’unico reato violento in cui si tende a far ricadere la responsabilità morale sulla vittima e non sull’aggressore. Le donne vietnamite abusate dall’esercito americano, le donne musulmane della Bosnia Erzegovina stuprate in massa dai serbi, le donne tutsi vittime della pulizia etnica hutu in Rwanda, le donne nigeriane rapite da Boko Haram, le donne yazide schiave sessuali degli estremisti dello Stato Islamico, sono corpi femminili usati nelle battaglie tra uomini, conquista della terra e conquista sessuale si sovrappongono.
Ma la tragedia non è soltanto questa. La violenza contamina in modo irreversibile e le donne sopravvissute che tornano nelle loro comunità non ricevono protezione né riparazione, ma vengono emarginate. Provano vergogna e mortificazione e un dolore mai più sanabile, il dolore di essere diverse per sempre, a causa delle violenze subite e peggio ancora a causa del giudizio della propria gente. Per non perdere il rispetto della propria comunità molte restano in silenzio. La persistenza culturale della violenza di genere sta proprio nel legare vittima e colpa in una spirale di perversione e l’abitudine al silenzio è il mezzo della lotta sessista per il potere. Insisto nell’usare la questione identitaria come chiave di lettura antropologica al fenomeno della violenza di genere, in tutte le sue forme e sulla necessità di riconoscere al suo interno la presenza della lotta per l’identità.
L’identità è una costruzione culturale, quindi precaria e mutevole, ma percepita come naturale, stabile, non negoziabile. Quella che l’antropologo Francesco Remotti definisce “identità armata” si sente onnipotente e superiore come un demone, si crede legittimata ad espandersi e pone l’altro oltre i confini dell’umano, tanto che diventa lecita qualsiasi forma di violenza fino alla sua soppressione: l’identità etnica e l’identità di genere sono entità potenti che estremizzate legittimano crimini come il genocidio, lo stupro di massa, il femminicidio.
Alla base di questa visione c’è l’oggettivazione dell’altro, diverso per genere, provenienza o etnia. Con l’uso della violenza il maschio rafforza la propria identità ma sancisce e testimonia anche la differenza di genere in senso generale, contribuendo alla conservazione del sistema di potere patriarcale. Il contesto sociale giudicante nei confronti delle vittime fa il resto: sancisce la colpevolezza della donna come “fatto naturale” e quindi indiscutibile. Per agire contro la violenza va assolutamente scardinata questa mentalità e contrastata quella che definisco rimozione di genere, l’esclusione simbolica e concreta delle donne da specifici centri di significato e potere.
Nella lotta per l’affermazione dell’identità, la questione di genere rispecchia gli equilibri di potere generando un duplice effetto:
1) la donna subisce la rimozione da parte della propria comunità umana e scompare come persona portatrice di diritti;
2) la donna rimuove a sua volta la violenza come atto criminale degno di riparazione e si nasconde, sopraffatta dal senso di colpa e dalla vergogna. Preferisce tacere piuttosto che affrontare la stigmatizzazione sociale.
Soltanto contrastando il silenzio sulle storie di violenza si possono cominciare a intravvedere giustizia e parità, attraverso un percorso educativo che coinvolga uomini e donne insieme, contrastando la violenza come tattica di dominio saldata alle dinamiche identitarie e riconoscendone la valenza politica.