Per la violenza alle donne si fa molto ma non abbastanza. Basterebbe forse poco per migliorare la situazione. Così avrà pensato anche Vittoria Doretti il medico che guida una vera e propria rivoluzione contro la violenza
Vittoria Doretti, senese con il morbido accento toscano, l’ho incontrata ad un convegno dove era stata premiata e dopo averle rivolto la parola non l’ho lasciata andar via senza che mi promettesse un’intervista. Un cappotto rosa shocking la faceva emergere dalla moltitudine di donne, tutte impegnate nella vita e nel sociale, che affollavano la sala. Questa donna piccolina con gli occhi che le brillano d’entusiasmo si è laureata giovanissima in medicina e cardiologia e poi anestesia, ha sempre lavorato e continuato a specializzarsi. Ed ora coordina la task force contro la violenza che è partita da Grosseto, dalla sua Asl numero 9, dove è dirigente anestesista.
Lotta contro la solitudine dei pazienti lasciati troppo spesso soli dopo la denuncia della violenza, ma non solo. Ha imparato le difficoltà del suo lavoro sulla strada, di notte, al telefono con la polizia, in ambulanza mentre allattava i figli piccoli portati con sè per non lasciarli soli durante i turni d’emergenza. La penuria di mezzi offerti spesso ai medici le hanno insegnato che non c’è bisogno di andare in Africa per trovare ospedali dove mancano le siringhe e dove l’ecografo è rotto da due anni.
Vittoria, ci racconti cosa è codice rosa e quando è nato?
Il Codice Rosa è un Codice che si “affianca” ai normali codici assegnati per gravità, identifica un percorso di accesso al pronto soccorso riservato a tutte le vittime di violenze, senza distinzione di genere o età che, a causa della loro condizione di fragilità, più facilmente possono diventare vittime di violenza: donne, uomini, bambini, anziani, immigrati, omosessuali. (il simbolo è una ROSA BIANCA che rappresenta tutte le vittime di violenza)
E’ nato dalla considerazione e dalla conseguente riflessione sul fatto che i casi di violenza denunciati in questura erano molto maggiori di quello delle donne che si rivolgevano all’ospedale per essere curate (Ora registriamo circa 500 casi di violenza ogni anno nella nostra Asl, fino al 2009 ne segnalavamo solo un paio). Da qui ho capito che c’era qualcosa che non andava in ospedale. Qualcosa s’inceppava. E’ come se le vittime preferissero curarsi da sole piuttosto che esporsi nuovamente a domande e dubbi.
Per anni mi sono trovata a contatto con vittime di violenza, e ho capito che il problema dell’assistenza e dell’iter per le denunce partiva proprio da lì. Quando una persona si rivolge alla polizia o ai centri antiviolenza è perché ha preso coscienza del suo status di vittima. Ma sono la maggioranza i casi che non emergono ufficialmente. Manca il personale di primo soccorso preparato a riconoscerli e a fare rete con colleghi e forze dell’ordine per aiutare chi in quel momento è solo, debole e incapace di reagire. Deve essere fatto un lavoro di squadra fatto sia personale medico che paramedico, forze dell’ordine, associazioni di volontariato, psicologi e assistenti sociali. Tutte persone molto motivate e che lavorando in squadra sentono di non lavorare da sole ma di avere un gruppo alle spalle. Una vera rivoluzione in un sistema sanitario parcellizzato e carente nella catena di attribuzione delle competenze.
E’ nato così un protocollo di intervento che è poi diventato esempio nazionale.
Come funziona la task force ?
Siamo tutti collegati, io sono costantemente in contatto con carabinieri e polizia e con le associazioni. Abbiamo un gruppo su Whatsapp con cui parliamo quotidianamente. Siamo sempre pronti a intervenire.
L’obiettivo è la massima esemplificazione delle procedure e la comunicazione tra le parti.
Per questo teniano corsi rivolti agli operatori non solo sanitari ma anche di polizia.
Non possiamo più permettere che una persona abusata sia costretta a raccontare quello che ha subito a tante persone diverse, dagli infermieri ai medici fino alle forze dell’ordine. Non deve essere spostata in varie stanze dell’ospedale, e non deve rimanere sola. Ogni professionista deve essere in grado di aiutare la vittima e di rassicurarla.
Ci deve essere una ”stanza rosa” dove venga accolto chi è abusato che può essere una donna, un anziano o un bambino. Non è dipinta di rosa, ma è un posto speciale, uno spazio protetto, che si può ricavare in ogni ospedale. È un luogo dove vengono accompagnate le vittime e da dove non escono se non quando si sentono pronte. Sono gli operatori ad entrare, con cautela e rispetto, senza stressare la persona e in un atteggiamento di disponibilità totale. Gli agenti delle forze dell’ordine stessi entrano nella stanza solo in borghese, per non creare disagio.
In Toscana il codice rosa è già una realtà in tutte le provincie. Come state lavorando nelle altre parti d’Italia?
Oltre ai corsi dedicati agli operatori in tutta Italia, stanno per partire unità in Calabria, Puglia, Basilicata, Veneto. Abbiamo sentinelle sparse capillarmente a cominciare per esempio dalle farmacie, cui si rivolgono spesso persone che cercano cure veloci per lesioni e contusioni per evitare di andare negli ospedali. Sono molti i farmacisti che partecipano ai nostri corsi e con ottimi risultati, a loro volta poi formano altri colleghi. E’ una specie di effetto domino che ci sta dando risposte incredibili da parte della popolazione. Nella nostra provincia tutti e 28 i comuni hanno firmato un protocollo per mettere a disposizione delle vittime di violenza quello che c’è, per esempio alloggi e strutture d’accoglienza.
Dall’esperienza di Vittoria è nato anche un libro “Codice rosa. Il magico effetto domino”.