Le donne hanno il potere di vita e di morte in una famiglia senza gioia né amore e in una società chiusa e arcaica, immobile, destinata a perpetuarsi all’infinito
di Laura Candiani
Avvicinarsi ai classici è sempre un’opportunità e può offrire interessanti spunti di riflessione. Simenon (1903-1989) ormai si può definire un classico del XX secolo: nei suoi quasi 400 romanzi (di cui 76 dedicati al commissario Maigret) i personaggi femminili hanno spesso un ruolo centrale, come si può comprendere anche da alcuni titoli: Betty, La vedova Couderc, La Marie del porto, La pazza di Itteville, Le signorine di Concarneau, l’autobiografico Lettera a mia madre. D’altra parte sappiamo che il suo rapporto con le donne, specie di livello sociale modesto, era quasi ossessivo: affermava di aver avuto circa 10.000 donne, di cui 8.000 prostitute, ballerine, spogliarelliste, perché aveva “bisogno di comunicare” e il sesso per lui era come “respirare”. Lo scrittore belga – da molti ancora relegato nella categoria riduttiva di “giallista”- utilizzando mezzi semplici e una lingua scarna, apparentemente facile (lui stesso dichiarava di scrivere anche 80 pagine al giorno), è stato invece un osservatore attento e ha saputo cogliere le più varie sfumature della realtà, in un lungo arco di tempo e in ogni strato sociale.
Nel romanzo Il grande male (Adelphi) del ’33 – anno fra i più prolifici della sua produzione – compaiono almeno cinque ruoli femminili indimenticabili. Ci troviamo vicino al mare, presso La Rochelle, dove molti sono impegnati negli allevamenti di cozze o nelle attività agricole. La vedova Pontreau domina ovunque si trovi: a casa propria tiene sotto controllo le due figlie, nella fattoria del genero e della figlia Gilberte niente le sfugge e tutti la temono. La quinta donna è una poveretta, la Naquet, una domestica ridicola che gira sempre con l’ombrello e un cappellino storto che vede o crede di aver visto qualcosa di molto sospetto.
Il romanzo ha ben presto un risvolto drammatico, infatti la vedova impassibile, fredda e contenuta, che prova un profondo disprezzo per il genero incapace e malaticcio, trova il modo di ucciderlo approfittando di una sua crisi epilettica. Così la figlia erediterà la fattoria e, con la vendita, potranno tutte e quattro vivere decorosamente. La descrizione del funerale è un capolavoro: nel caldo opprimente, la lunghissima fila si snoda nella campagna: “il corteo nero strisciava come un bruco”, ma in breve tutto deve tornare alla normalità.
La casa è in ordine perfetto, il grembiule ben stirato, i capelli divisi e acconciati, la pentola sul fuoco, i profumi quotidiani si spandono nell’aria. Subito dopo è inverno, le quattro donne si muovono insieme come “un unico blocco” : nessuna figlia può uscire dal controllo materno. La vedova è rientrata nella vecchia casa, la giovane Viève è costantemente sorvegliata, la maggiore Hermine viene scoperta a rispondere a un annuncio matrimoniale e redarguita duramente. Ma la tragedia incombe di nuovo con il suicidio di Gilberte che si è lasciata andare all’apatia e alla più totale indifferenza.
Mentre il paese mormora, i pettegolezzi salgono, i sospetti avanzano, la giovane vedova non regge la pressione e si getta dalla finestra. Qui troviamo un secondo funerale, altro momento culminante della vicenda, ma che differenza! Ora è freddo, un forte vento agita il mare, molti lavoratori si preoccupano per gli allevamenti di cozze e al funerale non c’è nessuno, nemmeno la sorella Viève che è fuggita con l’innamorato. Ora la famiglia si è ridotta a due donne ma, dopo una ellissi fulminante di ben 10 anni, vediamo che una specie di nucleo si è ricostituito: si è unita alle due la Naquet che questo aveva sempre voluto. Con i suoi brontolii, con le sue velate accuse poi ritrattate, con le sue meschinità e le vaghe minacce è riuscita a introdursi in quella casa. Viève ormai adulta, sposata, con due figli è ritornata e di lontano vede la sorella invecchiata che, come una prigioniera, ha da un lato la madre, impettita e indifferente, dall’altro la figuretta ridicola della Naquet, con le sue scarpe da uomo e il vestito nero. Senza neppure avvicinarsi, se ne va per sempre con la famiglia, ignorando di avere per madre un’as-sassina e immaginando forse quale sarebbe stato il suo destino se diciottenne non fosse fuggita.
Un quadro cupo quello dipinto da Simenon nel Grande male, senza un barlume di speranza, un mondo dominato dall’interesse, dalle meschinità, dal potere in cui gli uomini sono figure di con-torno: lavoratori troppo furbi, vigliacchi e bugiardi oppure proprietari ubriaconi e incapaci. Ma anche le figure femminili non offrono una immagine positiva e da un lato rappresentano il dominio come quello esercitato dalla signora Pontreau su tutti: figlie, servi, lavoratori, genero, dall’altro sono simboli di passività, rassegnazione, opportunismo. L’unica che si salva è Genevieve che ha avuto la forza se non di lottare, almeno di reagire e di scegliere il rischio di una fuga senza ritorno.
Le donne – sembra dirci Simenon, come Lorca nella Casa di Bernarda Alba (1936) – hanno il potere di vita e di morte in una famiglia senza gioia né amore e in una società chiusa e arcaica, immobile, destinata a perpetuarsi all’infinito.
Autrice: Laura Candiani – laureata in Lettere,ex insegnante-si occupa di studi storici, cinema,l etteratura,ambiente. Dal 2012 è socia e collaboratrice di “Toponomastica femminile” di cui è la referente per la provincia di Pistoia e per cui scrive articoli, biografie,reportage; partecipa a convegni, promuove iniziative e realizza pubblicazioni su tematiche “al femminile”( le balie della Valdinievole, le donne del Risorgimento, le intitolazioni). Collabora con varie commissioni Pari Opportunità ed è consigliera della sezione Storia e storie al femminile dell’Istituto Strorico Lucchese.