Un titolo sanguigno quello usato da Gaia de Pascale per il suo romanzo che parla di Antonia Pozzi, poetessa milanese morta suicida a soli 26 anni.
Le sue opere sono state pubblicate postume e giudicate tra le più importanti e preziose della letteratura italiana.
Nel libro della de Pascale viene scandagliata la vita della poetessa a fondo fino a diventare un opera di poesia essa stessa. Infatti quando mi sono di fronte al testo mi sono detta, ”questa opera va centellinata”. E così ho fatto rimandando l’intervista giorno dopo giorno, fino a quando mi è scivolata dentro, senza dolore.
Quella di Antonia è stata una figura rivalutata nel tempo quando prima era considerata marginale e della quale se ne parlava solo perchè facente parte di un circolo di intellettuali e di poeti, la cui figura principale era Vittorio Sereni.
Come è nata la tua passione per questa poetessa?
Mi sono occupata per lavoro come correttrice di bozze e per l’editing di vari personaggi, ma mai avevo pensato di scrivere un libro in prima persona su uno di questi grandi, prendendone le mosse per creare un’opera io stessa. E’ stata una reminiscenza universitaria che aveva approfondito nel 2001 quando mi ero laureata, ed ho sentito l’esigenza di ritornarci anche dopo il successo riscoperto grazie al film ed alla mostra fotografica tenutasi a Milano.
Una figura interessante romantica e moderna al tempo stesso quella di Antonia che morì suicida perchè vide ostacolata la sua relazione con Antonio Maria Cervi, suo professore al liceo, a causa della differenza di classe, e si gettò sempre più nella scrittura, mezzo con cui elaborava la realtà e le sue emozioni, forma espressiva che aveva nel sangue.
Antonia è vissuta a cavallo degli anni 30 ed il fatto che si sia suicidata a 26 anni , quindi molto giovane, fece molto scalpore e si cercò di nascondere quanto avvenuto, cancellandone addirittura gli scritti. E’ morta ingerendo barbiturici, ma è rimasta in coma per un giorno e mezzo.
Parlaci del libro..
”Come le vene vivono del sangue” si propone di raccontare la vicenda, poetica e umana, di Antonia Pozzi narrandola come un romanzo.
Parto dalla sua vita di cui lei narrava molto nelle sue lettere, ma di cui si sa poco perchè alcune di queste sono state distrutte. Sono state eliminate perchè faceva parte della milano benestante, padre ricco borghese e madre aristocratica e non si voleva ne restasse traccia. Inoltre si era innamorata di un suo professore che aveva venti anni più di lei e cosa forse più disdicevole era di origini meridionali, cosa che fa ridere ai nostri giorni, ma allora era un vero handicap.
Aveva avuto altre storie, ma nessuna era stata portata avanti a causa di quella che allora si pensava fosse inadeguatezza. Non riusciva a vivere la vita di tutti gli altri, si sentiva una persona a metà e l’unico ambito nel quale ritrovava se stessa era la poesia. Questo probabilmente è il motivo che ha causato la sua morte precoce.
Mi piace molto il titolo, ma da cosa prende le mosse?
Da una sua frase in una poesia da lei scritta e che testimonia il rapporto quasi carnale che aveva con le sue opere. Dalle sue immagini giovanili i suoi diari appare una donna solare e allegra. Aveva viaggiato molto e dopo aver conosciuto grazie alla sua condizioe sociale l’alta società, volle conoscere anche i bassifondi. Frequentava anche gruppi maschili senza esserne da meno. Fumava e beveva, era anche un’ottima scalatrice.
Forse quella che definiscono un’incapacità di vivere era invece troppa vita.
Il rapporto con la sua famiglia era contrastato?
No, era molto buono, ma la sua volontà di operare nella poesia, ambito fino ad allora maschile, la portava lontano da quello che ci si aspettava da una ragazza della sua posizione sociale.
Perchè ti ha attratto questa figura così complessa?
Antonia Pozzi ha attraversato gli anni Trenta con intelligenza e passione, sofferenza e determinazione. Si è molto detto su di lei, con accurati studi critici e biografici che ne hanno già messo in evidenza poetica e vita. Tuttavia si ha l’impressione di qualcosa di incompiuto. Come se ci fosse sempre troppo da dire, e nello stesso tempo un urgenza di silenzio avesse costantemente attraversato lei e le persone che le stavano accanto.
Perchè hai scelto di farne un romanzo piuttosto che una biografia?
Perché a volte la finzione è l’unica via per andare oltre le apparenze, i fraintendimenti, e ricomporre il puzzle di personalità poliedriche in cui fatti, intenzioni e volontà sono stati scossi da continui scarti.
M sono riproposta di fare il ritratto di una donna e del suo tempo – per come io l’ho vissuto, quasi un secolo dopo. E per come io l’ho sentito, romanzesco e sfuggente, più vero del vero.