Intervista a Marta Ajò, una delle vincitrici del premio ”Donne che ce l’hano fatta” e autrice del libro libro ” Viaggio in terza classe’‘ che oltre a parlare della vita politica italiana al femminile degli ultimi anni toglie il velo a vari passaggi del mondo istituzionale dall’omicidio di Aldo Moro” ad oggi.
1) Nel tuo libro parli della tua vita politica e di quella delle donne italiane.
Pensi che adesso le porte siano maggiormente aperte o ci sono ancora i capi bastone?
In politica i cosiddetti capi bastone, ci sono sempre stati e ci saranno. Il tema è, semmai, di cosa sono a capo. Di un progetto alto? Di un’idea chiara? Oppure chiedono un consenso di voti e potere? Temo che in questa stagione della politica i “capi” abbiano più questo secondo ruolo. In questo quadro, anche per le donne, le porte si possono aprire o chiudere sulla base di un’appartenenza perché la politica, intesa come mestiere, non ha genere. Il “nostro genere”, invece, potrebbe fare la differenza.
2) Ti candideresti? O la strada è più difficile ora che un tempo?
In passato, quando mi hanno chiesto di candidarmi per la Camera, ho accettato come un dovere cui non sottrarsi, neanche se correre per una tornata elettorale era un impegno molto faticoso perché si era eletti in base alle preferenze espresse. Rappresentava una verifica se quello che andavo dicendo e scrivendo avrebbe potuto tramutarsi in impegno concreto; oltre le idee e le parole, ritenevo giusto metterci la faccia; il consenso e il voto si dovevano cercare uno alla volta. Gli ideali, che creavano gli obiettivi, erano forti e la mia adesione si basava su questa spinta e non su interessi altri. Oggi la politica appare molto cambiata e le motivazioni di allora non avrebbero senso. La possibilità di essere eletti oggi, non dipende dal consenso elettorale che un candidato può aggregare ma dall’avere conquistato posizioni di potere all’interno del partito cui appartiene e di rappresentare un bacino di voti territoriali. In questa logica, quello che viene a mancare in campagna elettorale è esattamente il rapporto con la gente e le candidature possono rivestire, ancora prima di essere formalizzate, un peso contrattuale. Vale anche per le donne. A meno che non si vogliano considerare, le loro, candidature di vetrina e di compromesso.
3) Pensi che i passi che sono stati fatti avanti possano tornare indietro?
No, credo sia difficile tornare indietro. Quello che preoccupa è il non andare avanti.
4) Hai lavorato molto per le pari opportunità. Pensi che siano necessarie delle competenze specifiche?
Ormai tutto richiede specifiche competenze. L’improvvisazione , quella che ha aiutato tanto anche l’economia italiana del dopoguerra, non è più ripetibile né auspicabile. I giovani parlano molte lingue, appartengono all’era dell’informatica, la selezione del mercato del lavoro è sempre più rigida. Impossibile fare i tuttologi. Vale anche per la politica e il raggiungimento di pari opportunità non è un principio astratto.
5) Parlaci del tuo libro e di cosa ti ha spinta a scriverlo?
Nel tempo, mi sono abituata a fare, ho dovuto fare e mi hanno chiesto di fare e scrivere sempre per qualcosa o per qualcuno. Ho raccolto materiali per saggi, per articoli, per discorsi. Con me e in me c’è un grosso archivio. Però ho sempre coltivato il desiderio di scrivere d’altro. Quando queste due cose si sono intersecate hanno prodotto l’idea del libro, sostenuta e spinta da una giovane editor che mi ha fatto credere nell’utilità di questo romanzo- testimonianza. Sarei già pronta a riscriverlo, perché sono tante le cose non dette, ma bisogna mettere un freno alla corrente delle idee.
6) Pensi che i convegni di sole donne siano utili allo scopo di migliorare la posizione di queste?
Negli anni del femminismo, il confronto e la condivisione si svolgevano sempre in riunioni, comitati, collettivi di sole donne. C’è stato un tempo in cui anche le donne che facevano politica si interrogavano sull’opportunità di un partito senza uomini. Se nel primo caso l’inclusione e l’esclusione di genere hanno prodotto un movimento storico di matrice rivoluzionaria, nei luoghi della politica, fra le dirigenti, questa idea non è mai andata oltre un sogno. Perché in politica anche i sogni devono tramutarsi in concretezza altrimenti sono fallimenti. Un’organizzazione politica di genere apparve subito ghettizzante (questa era la grande differenza tra le politiche e le femministe), priva dei finanziamenti necessari e difficile da gestire trasversalmente. Inoltre avrebbe replicato, in modo velleitario, quello che avveniva, e che noi denunciavamo, in campo avverso. La società nasce e si basa sull’integrazione di due generi, non si può prescindere. Noi lo abbiamo capito, gli uomini ancora no.
7) Quali sono le cose che assolutamente bisogna fare subito appena la ministra inizierà con la sua delega?
Questa nomina, per i tempi e il modo in cui è avvenuta, lascia qualche prudenza rispetto alle aspettative. Un ministero non previsto all’insediamento del governo, un incarico di risulta rispetto alle tante importanti deleghe rivestite dalla stessa persona, manca di autorità e di protagonismo.
La ministra, oggi come ieri, ha grosse responsabilità. Non ultima ricucire la rete che si è strappata e impigliata attorno agli scogli di una cultura escludente e diffamatoria delle donne. Certamente, e per essere realiste, non si può chiederle di agire in contraddizione con la complessità politica ed economica in cui viviamo. Sarebbe velleitario, inutile e poco credibile, chiedere aggiustamenti di genere in un contesto complesso di categorie e di bisogni sempre più numerosi. Nessuno può scavalcare o uccidere l’altro. Però, non si può negare che ancora oggi la famiglia, l’accudimento di bambini ed anziani, pesano sulle donne e l’insufficienza di politiche sociali di supporto, caricano questo ruolo di maggiori fatiche e limiti. Intervenire su questi fronti dimostrerebbe la volontà di non rendere il ruolo familiare una prigionia e di riconoscerne il valore sociale ed economico. La questione è, al principio, culturale. Traducendo ogni misura in questa direzione dunque in un aiuto alla società, non alla madre ma alla famiglia, non alla donna ma alla persona che, nella differenza, svolge un ruolo comprimario, economico, peculiare da cui è impossibile prescindere.
Un programma che voli alto e non consideri questo incarico come un contentino temporaneo ad arginare alcune richieste apparentemente di genere. Osservare, proporre, correggere e vigilare, racchiudendo tutto in un unico obiettivo. Tendere contemporaneamente a riavviare un processo culturale cristallizzato, per alcuni aspetti in arretramento, come dimostra l’aumento costante della violenza sulle donne . Formazione e informazione, partendo dalla scuola certo ma anche intervenendo nelle realtà sociali degradate dove la donna, di ogni età, resta ancora oggi la vittima più colpita.
Un ministero che non elabori un libro dei sogni ma poche e buone regole, scuota gli alberi secchi, mantenendo una visione autonoma e moderna del suo ruolo per ricominciare il dialogo e il confronto che le donne sono state costrette ad interrompere.
8) E le donne migranti che arrivano da mondi dove non esiste la parità uomo donna, come bisogna comportarsi?
Una società moderna, multietnica, multiculturale e globalizzata economicamente non può non avere la consapevolezza che l’aspetto di genere presenta qualche elemento di ulteriore disagio. Nel fenomeno migratorio infatti, all’interno dei flussi provenienti da paesi diversi dal nostro e fra loro, si riscontra che esse vivono uno stato di subordinazione di genere propria di alcune culture e religioni. Basti pensare a quante delle migranti denunciano il fenomeno dell’infibulazione che ancora viene praticata nel nostro stesso paese. Sarebbe difficile, se non impossibile, comunque ingiusto, pretendere di sovrapporsi o imporsi alle loro culture. Il dibattito sempre più acceso che questo fenomeno migratorio pone alle coscienze e alla politica ne è la riprova .
Non credo che il ministro per la parità possa affrontare tutte queste tematiche, quanto piuttosto avviare un tavolo di dialogo in questa direzione. Per tutte le altre donne, che siamo noi, che ancora oggi debbono battersi nel loro territorio democratico per approdare a questa parità di diritti, non può che affiorare un maggiore senso di solidarietà e di sostegno nei modi consentiti.
9) Il femminismo ha accusato passi di arresto?
Non passi d’arresto. E’ tramortito.
10) Esistono donne valide in politica? O vince chi grida di più?
Chi grida di più di solito lo fa perché è debole, chi non grida è perché non riesce a parlare. Una giusta mediazione sarebbe la cosa migliore.
1 commento
Il problema dell’incontro fra culture basate sul predominio indiscusso del patriarcato e quelle post-femministe, ove emerge l’ipotesi di una declinazione al femminile del soggetto storico, non nasce dal vulnus di genere in se, ma per il tramite di una inversione temporale, e nella distorsione spaziale che la segue. Cioè, in sostanza, dagli effetti del digital-divide, capaci di raccogliere in un unico spazio tempi che restano diversi, sia nella fase, che nell’accelerazione. E’ questo un punto estremamente rilevante che sta alla base, ad esempio, del riemergere di fenomeni che appaiono sia nuovi che vecchi, confinati come sono al confronto in una medesima contemporaneità spaziale. E’ quel senso di assurdità, o di folle pretestuosità, che si può percepire difronte al gesto di una giovane italiana che si consegna nelle mani del Daesh, ad esempio. E’ rintracciabile nella fenomenologia delle primavere arabe e dei conflitti che ne sono seguiti e che lacerano il modo musulmano, ed in altri aspetti, apparentemente meno drammatici ma più fondanti per il genere umano, quali lo svolgersi dei processi psichici, della conoscenza, e di quelli identitari e territoriali. Tuttavia, in questo modo, è proprio ad una sensibilità non troppo impressionata da un tempo orfano del suo paradigma lineare che viene data la parola. Non circolare, piuttosto un tempo che è in quanto scoperta e non strumento di prova, il tempo in me del battito di un cuore altro, un tempo condannato a nascere straniero per farsi parente, che condanna i parenti allo straniero. Un tempo che non è in se, ma nel suo prender forma fra le moltitudini delle forme, fra le moltitudini dei tempi. Io non potrei dimostrarlo e rendermene proprietaria giacché, fortunatamente, non m’è dato, ma a me, questo tempo, sembra quello di una donna.