Non è facile per un uomo esprimere un giudizio coerente e privo di imbarazzo nei confronti del femminicidio.
di Nico Conti
In questa nostra società occidentale, che spesso contrapponiamo per superiorità implicita a altri paesi e culture, si verificano ripetutamente fatti di cronaca che rendono difficile a chi è “maschio” esprimere un giudizio coerente e privo di imbarazzo nei confronti di questa supposta modernità: è in particolare il caso del femminicidio.
L’ultimo femminicidio, in ordine di tempo, che fa scattare un doveroso ragionamento ”al maschile” sul tema della violenza ultima alla donna è quello della ragazza di Roma che, dopo una violenta lite, è stata strangolata nella sua auto e poi data a fuoco dal compagno.
In particolare nel nostro Paese, si superano annualmente il centinaio di casi dove la donna viene assassinata e dove nella maggior parte delle situazioni è il partner a compiere il gesto inconsulto: cioè colui che avrebbe dovuto amare la vittima più di ogni altra persona a lei vicina.
Se è impossibile entrare nel caso psicologico, meglio psichiatrico, per analizzare la follia del gesto, è doveroso da parte del “maschio” di turno tentare di compiere una qualche analisi dato che questo crimine per una logica di causa-effetto si chiama femminicidio, e non si può più trattare come fatto di cronaca isolato.
Senza voler creare teorie sociologiche, per cui non avrei le competenze e nemmeno i dati necessari su cui basarle, devo partire da alcuni fatti del contesto che mi sembrano importanti, e che mi saltano agli occhi:
1) Viviamo in una società post-maschilista: il potere non è più strettamente sinonimo di maschile, ma siamo ancora lontani da una società “asessuata”, vale a dire dove non c’entri il sesso a cui si appartiene ai fini della determinazione di chi comanda e dei
ruoli che si hanno.
Oserei dire che è una società neo-maschilista, almeno fino a quando una transizione sarà avvenuta in modo chiaro. Alcuni indizi fanno pensare che ciò non avverrà in un immediato futuro.
Il genere maschile e femminile vengono strategicamente mantenuti separati sin dalla nascita (rosa le femmine e azzurro i maschi), addirittura si usa comunemente il termine “opposite sex”, il che manifesta già una violenza in sé come in altri termini, appunto opposti, quali padrone-servo.
Molto è cambiato, ma non tutto: viviamo di fatto ancora in una apartheid dei sessi basata sul presupposto sbagliato della binarità di genere.
Per non farla lunga: il potere è ancora in gran parte maschile, ma è minacciato da nuove visioni.
2) Una statistica abbastanza recente dell’ISTAT rivelava che il 35% delle donne ha subito violenza fisica o sessuale da parte del partner e di altra persona.
Dunque solo in Italia quasi sette milioni di donne hanno vissuto una violenza nell’arco della loro vita.
Inoltre due terzi delle vittime di omicidi in ambito familiare è donna. Sono dati talmente macroscopici, che io “maschio” devo concludere che la violenza familiare non è l’eccezione ma la regola, e che se non sono responsabile della
violenza diretta, che non mi appartiene, lo sono per quella indiretta dello status quo.
Tutto questo fa davvero pensare a un monopolio del potere maschile seriamente minacciato, al quale alcuni di noi rispondono con la violenza, in mancanza di una cultura dell’uguaglianza e del rispetto.
3) Non tragga in inganno quest’ultimo fatto di violenza assassina avvenuto a Roma: gli omicidi non sono caratterizzati dalla latitudine, o dalla situazione macroeconomica di un’area, ma sono diffusi e in aumento anche in regioni che dovrebbero essere economicamente più solide, come la Lombardia.
4) Se l’economia e lo sviluppo di un’area non sembrano avere un influenza positiva a calmierare il femminicidio, forse è la mancanza di “tenuta sociale” che ha a che vedere con il fenomeno.
In un periodo di grave crisi economica come quello che stiamo vivendo, la società si dirige verso un maggior individualismo, si perde il senso di società comune e difesa del debole, ci si sente minacciati dall’esterno (migranti, razze, culture altre).
In altre parole viene a mancare proprio quella tenuta sociale, quel sentirsi collettività, quelle relazioni umane, e tutto viene ridotto a fatto privato.
Ragion per cui non mi stupirei se i femminicidi aumentassero nei periodi di crisi economica, così come aumentano i suicidi.
Insomma la più grande minaccia alla sicurezza “familiare” siamo noi stessi e siamo noi maschi.
Manca il collante sociale e vengono a mancare i rapporti umani in senso lato (una volta ciò si sarebbe detto conseguenza della mercificazione dell’essere umano, ridotto a forza lavoro).
Ora al di là delle teorie sociali, o della mancanza di una teoria sociale che non sono in grado di produrre, mi pare evidente che questi omicidi di donne, sono l’effetto di una causa più rilevante che non è da ritrovarsi solo nella violenza maschile tout-court, ma in una responsabilità sociale più ampia che portiamo tutti noi “maschi”.
Tutto ciò mette in discussione il nostro modo ordinario di voler contrapporre l’essere maschi all’essere femmine.
E’ in questa divisione costruita fittiziamente e socialmente la vera malattia mentale della nostra società.
Le regole sociali del nostro comune “gioco di ruolo” non funzionano più. E’ questa dicotomia sempre più artificiosa maschile-femminile che genera violenza.
Nella maggior parte dei casi avviene sulle donne, ma spesso anche sugli omosessuali, e a volte sulle minoranze transessuali, in altre parole è una violenza istituzionalizzata su tutto ciò che va contro questa netta separazione.