Nonostante i greci antichi fossero sostanzialmente misogini, in questo caso è la protagonista femminile, Alcesti, a fare la parte dell’eroina, del personaggio dotato di grande statura morale e spessore umano.
Presso il Teatro alle Colonne di Milano mette in scena i suoi spettacoli l’Associazione KERKÍS. TEATRO ANTICO IN SCENA, fondata nel 2011 da un gruppo di docenti, studenti ed ex studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; questa associazione ha la finalità di promuovere la messinscena di spettacoli della tradizione classica greca e latina e di eventuali loro successive rielaborazioni, senza dimenticare anche altri aspetti performativi creati dalla cultura antica (il mimo, il dialogo filosofico, la narrazione, l’epica e l’oratoria).
Il 25 maggio ho assistito allo spettacolo Alcesti, la tragedia di Euripide più antica giunta fino a noi, rappresentata probabilmente nel 438 a. C. Pur raccontando un evento assolutamente tragico, ha la particolarità di concludersi con un lieto fine. L’altro aspetto che rende la storia narrata degna di nota è che, nonostante i greci antichi fossero sostanzialmente misogini, in questo caso è la protagonista femminile, Alcesti, a fare la parte dell’eroina, del personaggio dotato di grande statura morale e spessore umano.
Nel prologo il dio Apollo narra di essere stato condannato da Zeus a servire come schiavo nella casa di Admeto, re di Fere in Tessaglia, per espiare la colpa di aver ucciso i Ciclopi come vendetta consequenziale all’uccisione del figlio Asclepio per mano di Zeus stesso. Grazie alla sua benevola accoglienza, Apollo nutriva per Admeto un grande rispetto, tanto da esser riuscito ad ottenere dalle Moire (le dee del destino) che l’amico potesse sfuggire alla morte, a condizione che qualcuno si sacrificasse per lui. Nessuno, tuttavia, era disposto a farlo, né gli amici, né gli anziani genitori: solo l’amata sposa Alcesti si era detta pronta a morire al suo posto e decide effettivamente di percorrere questa strada. Apollo in questo secondo frangente non può nulla contro la Morte, dunque il destino di Alcesti è segnato; lo spettatore assiste quindi ai suoi ultimi momenti di vita in cui, pur convinta della sua scelta, la donna saluta con struggimento la luce del sole (per gli antichi greci l’aldilà, l’Ade, era buio eterno), dice addio ai due figli ancora piccoli preoccupandosi per la loro sorte una volta orfani, critica i suoceri, che, pur anziani, non hanno voluto sacrificarsi per il figlio; addirittura consola il marito, che si dispera per l’imminente perdita della sposa amata.
Alcesti, moglie amorevole e pronta al più grande sacrificio, dimostra tuttavia personalità quando sottolinea, nel dialogo col marito, l’importanza della sua azione e chiede ad Admeto, con fermezza, di non prendere più moglie dopo di lei, anche perché teme il comportamento di un’eventuale matrigna con i suoi bambini. L’altra figura maschile che appare è quella del padre di Admeto, Ferete, che sopraggiunge prima dei funerali di Alcesti per portare in dono una veste funebre: il re suo figlio lo respinge stizzito, accusandolo di essere il colpevole della morte della moglie, ma il padre sottolinea che nessuno lo obbligava a lasciare la calda luce del sole in vece del figlio, poiché nessuno, anche se anziano, vuole abbandonare la vita e che invece Admeto è un codardo ed è l’unico responsabile della morte di Alcesti.
Pur essendo lo stesso Ferete un personaggio piuttosto negativo, egli esplicita la natura del figlio: pavido, debole, incapace di prendersi le proprie responsabilità e di sopportare il peso del proprio destino. Al contrario la moglie dimostra una grandissima forza psicologica e si trova, paradossalmente, nella situazione di dover consolare il marito della propria morte, conseguenza della codardia di Admeto.
Il grecista e filologo Carlo Diano, che dedicò gran parte della sua vita di studioso all’analisi dell’Alcesti, sottolineò in uno dei suoi saggi, uscito postumo nel 1975, come l’uso dell’appellativo ghennaìos («nobile di nascita»), con cui Alcesti è indicata, rappresenti una rivoluzione culturale, poiché quello era l‘appellativo degli eroi morti in battaglia, che mai prima era stato usato per una donna. Il sacrificio della protagonista si inserisce dunque nel contesto di una società guerriera dove il legame fra i “compagni” è più forte del vincolo di sangue (che lega Alcesti ai figli). Contemporaneamente Diano vede nel sacrificio di Alcesti un’altra grande rivoluzione: quella del morire al posto di un altro per amore, una scelta che il mondo antico non contemplava, mentre sarebbe diventato un topos letterario in molte epoche successive.
Nonostante il lieto fine, in cui Eracle, amico e ospite grato ad Admeto, riesce a riportare Alcesti dall’Ade e a riconsegnarla al marito e ai figli, la tragedia sottolinea l’attitudine che le donne possono avere al sacrificio in virtù dei sentimenti e del benessere delle persone a loro legate, non meno nobile ed eroica di un eventuale sacrificio in guerra per ideali più astratti, deputato al genere maschile. L’appellativo menzionato in precedenza riconosce questa parità, che non è da dare per scontata neppure oggi, e la trama rende evidente come sia assolutamente possibile che una donna sia grande e un uomo che le sta a fianco abbia caratteristiche ascrivibili a un “sesso debole”.
1 commento
Io sto con Ferete.
I morti in battaglia non sono rivoluzionari. E neppure le donne che annullano se stesse.
Dinanzi alle donne che ogni anno subiscono violenza e muoiono per mano di un uomo, con lo spirito di sacrificio femminile, ci andrei cauta…
Consiglio alla giovane autrice la lettura di “La morte ci fa belle” di Francesca Serra (Bollati Boringhieri).