” Spargo parole e storie su questa panchine ogni giorno in modo che le persone possano trovare ascolto e conforto nelle loro pagina”
di Ombretta Brondino
Il cappotto rosso è finalmente nel suo armadio dopo aver trascorso oltre quarant’anni in quello di sua madre. Quest’ultima lo comprò quando era incinta di lei. Ora è un magnifico pezzo vintage di una lana calda e spessa: ha un piegone apribile sulla schiena tale che possa contenere un pancione di nove mesi, quattro bottoni di legno marrone e un grosso collo fatto a camicia.
Soprattutto è rosso. Un bel rosso vivo, saturo di brillantezza.
Dal Natale scorso, Marta lo custodisce gelosamente, mimetizzato trai suoi tanti abiti a tinte basiche, al pari di una sacra reliquia. Ha tentato di indossarlo più volte sovrapponendolo ai suoi outfits in total black ma, al momento di varcare l’uscio, qualcosa d’incomprensibile l’ha costantemente indotta a cambiare combinazione di abbigliamento e capospalla. Come se quel cappotto fosse stato appeso lì per un’occasione speciale, un appuntamento con il destino e non per una serata qualsiasi o una semplice passeggiata pomeridiana. Lei sa con certezza che, un giorno, l’occasione per indossarlo le si presenterà in modo inequivocabile e quello sarà “il giorno”.
Marta è avvezza alle profezie e alle intuizioni improvvise, un dono il suo o forse semplici coincidenze ma molte volte nella sua vita le è capitato di percepire, prima di ogni altro, ciò che sarebbe accaduto. Come quella notte in cui alle tre in punto si svegliò in preda al panico e, nello stesso istante, la sua amica del cuore stava per partorire la sua seconda figlia oppure quando, sicura oltre ogni umana supposizione, affermò che il suo primo figlio sarebbe stato un maschio e con i capelli scuri, o ancora, quando sognò la distruzione di una casa per lei molto importante e questo segnò l’inizio dello sfacelo famigliare di coloro che la stavano abitando in quel momento. Marta è certa che indosserà quel cappotto in un’occasione speciale, per lei si tratta di una verità assodata così come lo è il fatto che ora, fuori, ci sia luce e, più tardi, sarà notte o che il prossimo uomo che amerà e l’amerà sarà in grado di accogliere e comprendere senza sforzo la sua duplice natura di luce ed ombra.
Oggi è una domenica di novembre, il primo giorno davvero freddo dell’inverno appena iniziato. Marta si sveglia sola, in preda al ricordo di un sogno in cui sua madre le porge in dono una piccola preghiera scritta su una pergamena bianca. «Cosa sono quelle parole?» S’interroga furiosamente «mi ricordano qualcosa, qualcosa che ho letto o ascoltato di recente ma non ricordo». Benché non rammenti con lucidità il significato di quei termini, ne intuisce un messaggio sottinteso e a lei indirizzato, una sorta di benedizione, un buon augurio, esclusivamente diretto a lei. «Il rosso torna nella mia vita, parole rosse. Me le dona la mamma. Sono rosse come il cappotto».
Attanagliata da questo vortice di pensieri aggrovigliati su se stessi come le matasse di cento gomitoli, decide di uscire per riprendere fiato. Prima di recarsi al parco a respirare un po’ di quella gelida freschezza, Marta controlla il calendario appeso in cucina. Sono quaranta giorni esatti che il suo ciclo mestruale non compare all’appello. È vagamente impensierita da questo fatto ma, considerando l’età che avanza e la pressione accumulata negli ultimi mesi in redazione, accantona la sua apprensione e, infilate un paio di scarpe da ginnastica, esce di casa.
Decide di andare a camminare lungo il fiume di Torino, sua città d’adozione. È domenica e i viali del parco, deserti e silenziosi, fanno da sfondo ai suoi passi svelti. Pare che tutti si siano attardati sotto i loro caldi piumoni, in attesa che un raggio di sole faccia capolino sulla superficie dell’acqua fredda del Po mentre lei cammina, macina passi, suda, pensa e, più pensa, più i pensieri scivolano via e sembrano sciogliersi dietro la sua figura rendendola finalmente leggera e libera. L’abilità nel lasciar andare i pesi, concentrandosi sul ritmo cardiaco e respiratorio del proprio corpo, è un dono ereditato dai suoi tanti cammini spirituali fatti in gioventù e, per quanto lei oggi recrimini un certo tipo di passato, ha imparato a coglierne le accezioni positive e gli insegnamenti, scremando l’inutile: «Ho fatto bene ad uscire di casa» pensa tra sé e sé. Il movimento costante e concitato dei muscoli le permette di non sentire più il freddo e le gambe sembrano vivere di vita propria «Potrei andare ovunque con questo passo» sussurra sommessamente e con gran compiacimento. È uscita di casa stretta nella morsa dell’ansia ed ora si ritrova in un vero stato di grazia, colma di quel nulla che ti fa credere che tutto sia possibile. Marta è inondata da un inusuale senso di gratitudine che le permette di percepire la bellezza delle cose più semplici: l’acqua che scorre pacatamente alla sua destra, gli alberi spogli e desiderosi di sole, la bella vista collinare che le si offre come un quadro di Klimt e un gruppo di panchine verdi che scorge in lontananza, sulla sponda opposta del fiume, poste in modo insolito e circolare. Non le aveva mai viste prima d’ora; da lontano paiono due gruppi quasi concentrici di panchine, ma osservando con più attenzione, nota che esse sono state disposte in modo da creare il simbolo dell’infinito. Per raggiungerle, Marta deve attraversare un ponte «Possibile non mi sia mai accorta di quelle panchine? Chissà da quanto sono là e perché sono state sistemate in quel modo?». In preda a questo senso di leggerezza, si avvia per raggiungerle. Oggi ha staccato il suo filo dal mondo, anche il telefono è rimasto a casa, e assapora, oltre alla solitudine, la meraviglia del farsi trasportare, passo dopo passo, dall’imprevisto e dalla rincorsa istintiva di ciò che la attira. Non pensa, non congettura e non si piega ai vincoli degli orari o delle incombenze sociali. Questa libertà rappresenta la più importante delle emancipazioni per lei.
Quel cumulo di panchine verdi, ancora infreddolite dalla rugiada notturna, sono la sua meta più prossima, il suo fine più imminente, l’obiettivo del momento. Hic et nunc.
Marta allunga il passo, attraversa il ponte quasi correndo, incalza una breve discesa terrosa, procede ancora per circa cinquecento metri e arriva lì, alle panchine dell’infinito. Viste da vicino offrono uno spettacolo molto più gradevole di quanto non si aspettasse. Sono di dimensioni leggermente più piccole rispetto agli standard e il verde con cui sono dipinte è ancora brillante; si susseguono una dietro l’altra con precisione assoluta e i bulloni che tengono insieme le assi di legno sono colorati di rosso. Marta gioisce alla vista di quella che pare essere un’oasi per bambini, suggestiva e primaverile, posta in un contesto grigio e invernale.
Decide dentro di sé che quello, d’ora innanzi, sarà il suo posto, il luogo a cui tornare e una tale intrinseca conclusione la riempie di soddisfazione e orgoglio; infondo lei quel posto non lo aveva ancora trovato prima d’ora in una città diventata sua un po’ per caso e non per scelta o per nascita. Il lavoro l’ha portata qui e oggi, dopo mesi, la scoperta di un spazio speciale tutto per sé la fa stare bene, la fa sentire al sicuro «qualunque cosa accada, so che ho questo luogo d’infinito, a cui posso tornare, sempre». Rincuorata da un tale pensiero si accomoda su una delle tante panchine e chiude gli occhi abbandonandosi per qualche istante ad un respiro lento, pieno di incantato silenzio e ritrovata pace. Si assopisce lievemente in questo stato di torpore, trasportata da immagini e visualizzazioni che irrompono fortuite nella sua mente, poi a stento riapre gli occhi con l’intento di riavviarsi verso casa ma si accorge di un particolare non visto prima: nel cerchio adiacente a quello in cui lei è seduta c’è un libro.
Un libro sottile, dalla copertina sgualcita, di un grigio chiaro e una scritta rossa come titolo Consolazioni di Nino Salvaneschi. Marta si avvicina incuriosita, lo afferra ed inizia sfogliarlo con indubbia voracità. Le pagine sono leggermente sgualcite, il carattere delle parole è piccolo e sa di antico, alcune frasi sono sottolineate con un pennarello rosso, si tratta di righe sottili e perfettamente tirate «A dieci anni sono diventato cieco» questo l’incipit del libro. Marta non può fare a meno di raccoglierlo tra le sue mani come fosse un segno, quelle sottolineature rosse la riportano inevitabilmente al sogno della notte prima. Si guarda intorno incuriosita, in cerca di colui o colei che, durante il suo breve commiato dal mondo, è passato di lì e sussurra «lo avrà lasciato intenzionalmente, si sarà seduto o seduta per leggere e poi vedendomi ha preferito andarsene dimenticandosi lì il libro oppure, che so io, oppure questo piccolo testo colmo di saggezza, lo si intuisce a prima vista, è qua per me, per dirmi qualcosa, per comunicare con ME».
Lì intorno non vede nessuno, si attarda ancora qualche istante in attesa ma, non scorgendo anima viva, decide di andarsene, inizia ad avere freddo e a casa la attende la stesura di un articolo piuttosto ostico che deve essere consegnato alla redazione del giornale, entro e non oltre, le ore venti della sera stessa. Lavorare nella sala stampa del quotidiano cittadino ha questo orrendo risvolto del non permetterti orari e giorni di riposo davvero liberi. Scrivere di cronaca ed essere letteralmente “sempre sul pezzo” è eccitante e quantomeno gratificante da un punto di vista professionale ma, ultimamente, il suo sistema nervoso e la sua vita privata ne stanno facendo un po’ le spese, o almeno, questa è la scusante ufficiale. Poi si sa che dietro agli eccessi di nervosismo e alle storie continuamente fallite sono ben altre le verità da indagare ma, tornando a Marta, lei proprio non se la sente di appropriarsi di quel libro e, benché il suo istinto le stia suggerendo che è lì per lei, lo depone nuovamente sulla panchina e si allontana. Se ne va in tutta fretta, convincendosi forzatamente che se il libro è davvero lì per lei, la vita troverà il modo di farglielo avere. Un po’ come il cappotto, anche questo piccolo libercolo, di rosso sottolineato, avrà la sua occasione di farsi ritrovare e leggere.
Marta rientra in casa e, dopo essersi ripresa grazie ad una doccia calda, si mette subito al lavoro, arginando l’accaduto in un anfratto ben sprangato del suo cervello e del suo cuore. Spesso le capita di voler vedere segni anche là dove non ci sono, illudendosi che la vita sia un susseguirsi di azioni e pensieri che ne generano altri conseguenti e strettamente legati ai primi. Crede con fermezza alle teorie sincroniche e annovera tra le sue letture il fior fiore degli esperti in materia ma ci sono giorni in cui tutto ciò la stanca e la fa sentire una povera illusa del “perché ad ogni costo”, una fanatica del “nulla è per caso”, e allora getta la spugna, si beve una birra e si spara nelle orecchie “Prendi la strada che porta fortuna, prendi la via che fa più paura … la vita è dura! E quando arriverà la domenica …” del suo Vasco, il suo consolatore dolce amaro, il suo folle saggio, il suo cantastorie adorato. “Non arrenderti mai, la vita è dura … non aspettare Godot” ecco, ogni volta che ascolta quella frase è come se una secchiata di acqua gelida le venisse rovesciata violentemente sulla schiena destandola dalle sue divagazioni stralunate e obbligandola a rimettere tutti e due i pedi saldamente per terra.
Sempre con la musica di sottofondo, si prepara un toast e una spremuta e, acceso il pc, inizia a scrivere: l’energia accumulata durante l’uscita mattutina le concede di concentrarsi facilmente e termina l’articolo, con soddisfazione, in appena un paio d’ore. Ritrovandosi dunque con la mente libera di vagare, il suo pensiero torna là, alle panchine dell’infinito, al libro grigio con la scritta rossa e a quell’idea, stupida o meno, che quel libro fosse un messaggio per lei. È pomeriggio avanzato ormai, il freddo è tornato ad essere pungente e se chiunque, a quell’ora della domenica, penserebbe a rifugiarsi in casa con un bel libro in mano e una cioccolata calda da gustare, lei non riesce a darsi pace e, dopo aver pianificato la sua serata al cinema con Valentine, la sua nuova collega belga, decide di fare un salto là, nel suo posto speciale. Questa volta prende l’auto per spostarsi.
Il suo fine non è quello di camminare o svagarsi bensì di giungere il prima possibile a destino e vedere se nel frattempo qualcosa è cambiato o se tutto è come lei l’ha lasciato qualche ora prima. Parcheggia l’auto sulla strada e si addentra nel parco, il sole sta per tramontare e chi era uscito per un breve tour domenicale sta rientrando in casa per cui la zona appare decisamente desolata. Marta scorge le sue panchine concentriche da qualche metro di distanza e accostandosi non può fare a meno di notare una figura anziana di donna minuta, dai bianchi capelli raccolti sulla nuca, intenta ad allestire le panchine, una per una, con la posa di un libro. Ne deposita uno diverso su ognuna dopo averlo estratto da una grossa busta di plastica gialla che tiene con la mano sinistra; compie tale gesto con una lentezza e una cura tali da farla apparire agli occhi di Marta come la mossa sapiente di una fata, un folletto del bosco, una rivisitazione della Trilly di Peter Pan che, al posto della polvere dorata capace di far volare gli umani, sparge intorno a sé la magia delle parole.
L’incanto di una tale atmosfera l’avvolge completamente e, nascosta dietro ad un grosso tronco adagiato sul terreno, Marta continua ad osservare le sequenze silenziose e accurate di quella vecchina che pacatamente dissemina libri, al calare della sera, su un crocicchio di panchine verdi. La dolcezza del suo fare induce spontanea e rumorosa la domanda «Ti prego, dimmi perché lo fai», Marta irrompe in quell’incantesimo sospeso tra realtà e magia e l’anziana donna, senza scomporsi come se sapesse di essere spiata, «lo faccio per me, per dare un senso alla mia esistenza». Le due donne si avvicinano e i loro sguardi s’incrociano fissandosi l’uno nell’altro. Marta la studia e la donna si lascia scrutare senza vergogna; pare una di quelle anime che non hanno nulla da perdere e tantomeno da nascondere «sei stata qui anche questa mattina vero? Io mi sono assopita un istante e dopo aver riaperto gli occhi ho visto…» Marta cerca affannosamente con lo sguardo tra i libri sparsi il libro dalla copertina grigia «È per caso questo quello che cerchi?» chiede la vecchina porgendole il libretto «Sì, è lui! Devo confessarti che sono tornata qui stasera nella speranza di ritrovarlo. Oggi, non sapendo di chi fosse, non me la sono sentita di appropriarmene ma sono rimasta incuriosita dal fatto di essermelo trovato accanto e ho pensato che…» «Che fosse qui per te?» incede la donna tra l’affermazione e la domanda «Già, ho creduto ingenuamente che fosse qui per me. Un messaggio, un segno. Ecco perché sono tornata stasera».
«Infatti. Era lì per te». L’anziana donna glielo porge con la sua innata soavità dopo averlo estratto dalla busta gialla rimasta ormai pressoché vuota. Marta, incredula, allunga una mano per afferrarlo e con uno sguardo incredulo aggiunge «Per me? Ma allora oggi tu mi hai vista».
«Oggi ti ho osservata» dice sicura «La mia casa è lì» e indica un anfratto, lì accanto, nascosto tra le foglie e difficilmente visibile all’occhio umano, o meglio, la verità è che nessuno si aspetterebbe che un tale, inospitale luogo lungo la riva di un fiume cittadino possa rappresentare il concetto di “casa” per qualcuno.
«Quindi tu mi hai vista arrivare e quando mi sono assopita tu…» non riesce a procedere tanto è lo stupore nel pensare che quella anziana donna abbia vegliato su di lei e, in qualche modo, se ne sia presa cura «Ho fatto ciò che faccio da sempre. Ho cercato di dare “Consolazione”» dice, strizzando l’occhio destro, parafrasando il titolo del libro. «Posso farti una domanda?» incalza Marta la quale, man mano che le si avvicina per parlarle, si accorge che la vecchina è praticamente sdentata e che le sue mani sono sporche e callose. Altro che una domanda vorrebbe farle ma trattiene la sua indole da giornalista d’assalto e si limita a dire «Tu fai questo ogni giorno? Regali libri alle persone?»
«Sì. Spargo parole e storie su questa panchine ogni giorno in modo che le persone possano trovare ascolto e conforto nelle loro pagine. Vengono qui la sera, prendono il loro libro e poi se ne vanno. Ho iniziato a farlo per chi, come me vive, per strada e non può permettersi di spendere denaro per leggere ma poi è diventata un’abitudine di molti qui intorno, ricchi e poveri. Per fortuna la lettura non fa distinzioni». Sempre più incuriosita Marta incombe sfacciata «E tu? Come fai a possedere tutti questi libri?»
«I libri sono la sola cosa che ho portato con me quando sono uscita di casa un giorno di molti anni fa, senza sapere dove andare. Ero un’insegnante e i libri erano e sono la mia identità. Senza di loro io non sono nulla» Marta si siede senza riuscire a scostare gli occhi dai suoi. La donna continua «La sola cosa che chiedo è che al termine della lettura me ne riportino un altro indietro in modo che anche io possa non rimanere mai digiuna di parole nuove. Per me sono la cosa più importante. Mi possono privare di ogni cosa ma non di quelle. E sono tutti come me quelli che vengono qui sai?» C’è poesia nelle sue parole, dolcezza nel suono della sua voce e una luce vivida e fervida nei suoi piccoli occhi celesti «Devi essere stata una magnifica insegnante e soprattutto molto appassionata dei tuoi alunni. Insegnavi materie letterarie, vero?» Ostenta Marta con una sicurezza tale da sembrare quasi fuori luogo in quel contesto surreale «Insegnavo tutto, italiano e matematica, nella scuola elementare del mio paese, in alta Val d’Aosta, ma la cosa che adoravo fare con i miei bambini era leggere. Andavamo nei boschi a farlo quando la stagione lo permetteva e quello era uno dei momenti più preziosi per me e per loro». Un tale ricordo sembra smuoverle qualcosa dentro, qualcosa che evidentemente appartiene ad un’altra vita, un altro mondo, completamente diversi da quelli odierni «Ora saranno tutti adulti» afferma lei con non poco orgoglio «Avranno un magnifico ricordo di te, ne sono certa. Certi insegnanti sono in grado di cambiarti la vita e tu sei stata sicuramente uno di quelli». La donna la guarda e semplicemente aggiunge «Spero soprattutto che la loro vita sia stata felice e colma di parole intelligenti. Sai, le parole intelligenti generano pensieri sani e quindi persone felici. Belle parole e un bel cappotto caldo sono tutto nella vita. Prendi il tuo libro cara e ricordati solo la cortesia di riportarmene uno dei tuoi quando avrai terminato di leggerlo. Ora rientro che fa freddo e vedo che i miei lettori stanno arrivando».
L’anziana signora si ritira nel suo anfratto tra le foglie secche e Marta, visibilmente colpita, si avvia lentamente verso la sua auto con il libro stretto nella sua mano destra. Ad un certo punto si gira per godersi la vista di questo piccolo corteo di persone, saranno state una decina o poco più, che mestamente e in silenzio si avvicinano alle panchine dell’infinito, chi con un libro in mano e chi senza. Tutti pronti a prendere e restituire parole e pensieri intelligenti, come dice lei. Marta si rende conto di non sapere nemmeno il suo nome, ma forse, è giusto così.
Giunta a casa, apre il suo libro e si accorge di un particolare che le era sfuggito quella mattina; una frase scritta in stampatello rosso sulla seconda pagina, prima della prefazione, dice “DOPO AVER LETTO, RIPORTAMI UN ALTRO LIBRO LETTO DA TE. NON RESTIAMO A DIGIUNO DI PAROLE, MAI”.
«Valentine, ciao!» telefona alla collega con cui aveva appuntamento in serata «Scusami, ma stasera non me la sento di uscire. Ho avuto una domenica impegnativa, sono stanca e domani in redazione attacco presto. Abbi pazienza, facciamo un’altra volta» la liquida svelta, si accomoda nella sua vasca da bagno colma d’acqua calda fino all’orlo, e inizia la sua serata di lettura solitaria.
Quel libro la scalda a tal punto da voler rendere il favore alla fata delle panchine.
L’indomani di mattina molto presto, prima di recarsi in redazione, Marta si reca nel suo luogo e sulla panchina, oltre a Madame Bovary di Gustave Flaubert, lascia un pacco con dentro qualcosa di rosso e molto molto caldo. Un biglietto “A TE CHE MI HAI CONSOLATA CON LE PAROLE, NE LASCIO DI NUOVE E INTELLIGENTI INSIEME A QUALCOSA DI MOLTO CALDO CHE TI SARÀ UTILE IN QUESTO FREDDO INVERNO. TORNERÒ A TROVARTI PERCHÉ ORMAI QUESTO È ANCHE IL MIO POSTO”.