Al teatro Litta di Milano, fino al 9 luglio, splendida pièce di Antonio Sixty e Valeria Cavalli.
Non sono organizzata per lo svago io….
…faccio già tanta fatica a interessarmi di me stessa…
…sono molto affezionata alle cose io, anche se le persone m’interessano di più.
—per spettinare tutto, come fai sempre…
Identikit di una donna è uno spettacolo di alta astrazione intellettuale, reso certamente meno godibile dalla mancanza di climatizzazione del teatro, inidonea al clima soffocante della fine giugno milanese in cui lo spettacolo è stato presentato in prima nazionale. Le condizioni di fruizione, certo non buone, hanno però creato una saturazione fra il caldo raccontato in scena e quello vissuto dalla platea, e così fra mondo reale e teatro, forse solo causale, ma molto suggestiva. Una confusione di livelli di realtà che ci ha fatto pensare proprio ai riflessi nelle finestre e agli specchi dei film di Antonioni e al teatro luogo assurdo “in cui si pratica il falso con l’intento di raccontare qualcosa di vero” come dice in un’intervista di Flora Pitrolo Antonio Sixty, che in questi giorni e fino al primo ottobre, espone in diversi luoghi di Milano, con una “mostra diffusa”.
Un viaggio di due ore nella testa di uno dei più influenti e rappresentativi intellettuali della cinematografia italiana del Novecento. Dietro ai suoi occhi e dentro la sua macchina da presa, per come lui stesso si è raccontato nel suo Fare un film per me è vivere (Marsilio, 1994), titolo anche di un documentario del 1996 realizzato dalla regista e attrice Enrica Fico, compagna di vita del regista.
Un’occasione per vedere con la mente, per risvegliarsi al senso onirico delle cose, delle parole e dei gesti, tesa fra i due poli di Identificazione di una donna, film di Antonioni del 1982, e l’episodio Il filo pericoloso delle cose, dal film collettivo del 2004 Eros, cui il lavoro si ricollega intensamente.
Può fungere da introduzione al cinema di Antonioni, per le/i più giovani, ma anche da compendio analitico, approfondimento e riscrittura dei suoi principali temi. L’azione è tesa e ricca di spunti, una sequenza di gesti performativi, fra luci raffinate, immagini, parole scritte, recitate o amplificate dai microfoni, che mette in moto come non mai i pochi esausti neuroni, sopravvissuti a un intenso anno di lavoro prima delle sospirate vacanze. Un’opera teatrale e performativa, con molti strati di significato, stimolo a ricostruire il senso narrativo della presenza, fisicamente magnetica, dei due personaggi femminili in scena (Caterina Bajetta e Bruna Serina de Almeida), artificiosi e illogici, eppure così sinceri, vivi, palpitanti, come sempre le donne del cinema di Antonioni (che si legò artisticamente e sentimentalmente a due attrici che diresse, Monica Vitti ed Enrica Fico), e si fanno “filtro sottile per raccontare la realtà”.
In fondo l’identikit è un insieme di tratti staccati ricomposti in unità che ricostituisce la forma femminile secondo la poetica del regista. Ciascuna delle due donne è infatti presentata come “rifrazione della stessa immagine (…) che si proietta all’infinito come a rappresentare l’inafferrabilità del femminile (…) e l’enigma stesso della femminilità”.
La chiave per la comprensione di questo “enigma del femminile” è contenuta, a nostro avviso, proprio nel film Identificazione di una donna, in due particolari: la bacheca in cui il protagonista (autobiograficamente un regista) raccoglie ritagli di volti femminili, alla ricerca imperiosa e affannosa sia dell’ideale protagonista di un futuro film sia della compagna di vita ideale, come tale impossibile da trovare, e il fuggevole cammeo del personaggio di Nadia, interpretato non a caso, da Enrica Fico, che rappresenta la donna fuggita dalla città e tornata a una dimensione mitica e mistica di contatto con la natura.
Proprio in quel film il protagonista si dibatte fra l’esigenza di un ammirato e silenzioso sentimento di appartenenza e sconfinamento nella bellezza femminile come universale fusionale, e la necessità di un confronto intellettuale e sentimentale, che fatalmente contrappone l’uomo e la donna e ne logora la relazione. Non a caso, dinanzi un dialogo indagatore del film, quello con la sorella, decisa a stabilire le responsabilità della fine delle relazioni vissute dal protagonista, quest’ultimo non può che fuggire, voltando le spalle alla conversazione e alla relazione, pur vissuta con intimo affetto.
Parlare di Antonioni e del suo cinema, del suo modo di guardare la donna, è per noi un modo di porre una domanda sull’identità femminile, ricostruita attraverso uno sguardo maschile, amoroso, ammirato, ma mistificante proprio perché frammentario, che finisce per generare assenza, totale e irrimediabile, di senso. Da questa crisi del senso umano della relazione, che ben ritrae un’epoca storica, con la sua tensione intellettuale ed estetica, noi, le donne di oggi, dobbiamo acutamente e dolorosamente prendere le distanze.
Le donne di Antonioni, proprio come molte donne della cultura e dell’arte, pur messe in scena con tanto charme, sono fantasmi, donne di carne e carta, costruite e decostruite da uno sguardo maschile incapace di riconoscerle come alterità individuali.
Sono un puzzle di domande, non personaggi. Non vivono realmente amori, lesbici o no, ma si esibiscono, si denudano, si espongono, senza autodeterminazione e senza personalità. Vivono fugaci istinti, gesti scomposti. Sono protagoniste di un eros evocativo e feticistico di oggetti, come la spazzola che leviga ugualmente criniere equine e capigliature femminili, di tacchi assurdamente barcollanti nella sabbia, di parole spezzettate e impotenti. Costruzioni della mente e dell’occhio di un uomo, inquieto e profondamente turbato da loro, ma mai realmente, veramente, interessato a raccontarle.
Non si sfugge al fascino di questo spettacolo, nodo di sperimentazione che intreccia teatro e cinema, lettura e azione scenica, performance e arte, e ha davvero mille motivi di fascinazione sensuale e intellettuale insieme, ma proprio per questo, sentiamo la necessità di prendere le distanze dal portato disumanizzante e de-soggettivizzante di una narrazione del femminile improntata al sentimento sconsolante di un uomo che dalla perdita di sé, dei valori e dell’orizzonte di futuro della propria classe sociale, non ha voluto o forse saputo vedere la questione femminile, come espressa per esempio da Carla Lonzi in Manifesto di Rivolta Femminile: “La subordinazione della donna è sancita nell’atto sessuale del coito da cui l’uomo trae la convinzione naturale della sua supremazia (…) questo è il presupposto della famiglia patriarcale, autoritaria, oppressiva e antisociale, dunque accumulatrice di beni e di prestigi” (ringrazio la pagina Facebook di Oikos-bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza per la citazione).
Una questione femminile che è anzitutto incapacità di riconoscere la donna come soggetto, e che si esprime, con un esempio fra tanti, nell’incomprensibile assenza fra i materiali informativi della cartella stampa dello spettacolo, accanto al curriculum vitae dell’artista Antonio Sixty, di un profilo della coautrice, regista e drammaturga Valeria Cavalli, da tempo presente sulla scena teatrale milanese, di cui, siamo sicure, non mancherà occasione di parlare in questa rubrica.
Intanto godetevi questa breve intervista, a cura di Valeria Palumbo, sul suo lavoro.