INFINITO PRESENTE. EPIFANIE DEL FEMMINILE NEL DESIGN ITALIANO.
Nona edizione del Triennale Design Museum, W. WOMEN IN ITALIAN DESIGN, nell’ambito della XXI esposizione internazionale, a cura di Silvana Annicchiarico, allestimento di Margherita Palli. Milano, Palazzo della Triennale, fino al 19 febbraio 2017.
Rubiamo il nostro titolo a quello del saggio, contenuto nel catalogo della mostra, della curatrice Silvana Annichiarico. Un scritto incendiario, appassionante, chiarificatore. Se, in occasione della XXI Esposizione Internazionale, il Design Museum della Triennale di Milano presenta la sua Nona Edizione W. Women in Italian Design, non è solo per parlare di “Design al femminile”, ma per evidenziare la presenza delle donne nell’affermarsi del Design italiano. Valorizzare il contributo femminile in questo campo, come in altri, non è solo questione di equità e di diritti, ma anche di efficienza, perché “il basso impiego delle donne nel lavoro significa spreco di risorse e di talenti” dice il presidente della Triennale Claudio De Albertis nella sua presentazione.
Non si tratta neppure soltanto di ricostruire una storia, come ci ricorda il presidente del Triennale Design Museum, Arturo Dell’Acqua Bellavitis: di affermare, per esempio, che fu Catherine de Vivonne Marchesa de Rambouillet (1588 – 1665) a inventare l’arredamento domestico, o di ricordare come l’orizzonte patriarcale vittoriano dell’Ottocento rinchiuse le donne in pochi ambiti espressivi a loro consentiti, come la hausmusik, l’acquerello, la poesia. E che ci sono ancora oggi spazi preclusi e ruoli subalterni per le donne nella realtà produttiva del design industriale e dell’architettura. E nemmeno di commemorare l’opera delle più note designer italiane, come Franca Helg e Gae Aulenti (qui di fianco la sua splendida lampada pipistrello) o di documentare il lavoro di Ida Farè e Sandra Bonfiglioli nella realizzazione di spazi pensati per le donne o le recenti attività di Anty Pansera, come la mostra sulle Designer tenuta a Ferrara nel 2002.
L’intento della curatrice è più ambizioso: illustrare il ruolo fondamentale e il vitale contributo al Design italiano e internazionale di donne “che hanno ricevuto meno di quanto dato al sistema del Design”, senza tacere “l’occultamento della presenza e del contributo delle donne” e l’egemonia maschile “perdurante e pervicace” nel Design italiano del Novecento, improntato a una ideologia patriarcale, per la quale, tante donne, innovatrici e importanti, sono state rimosse, nascoste e marginalizzate. W. Women in design (con la “W” che abbrevia un sonoro “evviva” sprizzante di energica affermatività) vuole rimediare a questa rimozione, non per un inutile risarcimento, ma per una rimessa in equilibrio del percorso creativo del Novecento che, con il suo approccio rigidamente autoriale, tuttora non fa che ribadire la figura demiurgica del progettista-autore e diviene “culto del Maestro”, fallendo nella rappresentazione del Design come mondo produttivo, sistema di professionalità differenti che s’intrecciano e convergono nella costituzione di quello che Annichiarico chiama il “sistema del Design”, fatto anche di comunicatrici, storiche, archiviste, curatrici, docenti, galleriste, giornaliste e imprenditrici. Un allargamento dell’indagine al processo della produzione di un oggetto di Design, all’“innesco dei processi creativi” al cui centro è la sinergia, il lavoro di squadra, il dialogo fra individualità che accettano il proprio limite personale e si aprono alla relazione. Nello stesso tempo un grande tributo alla varietà delle professioni del Design, cui concorrono storiografia, critica, organizzazione e comunicazione, con il loro un enorme contributo alla storia di successo del Design italiano.
L’ordinamento della mostra, infatti, sceglie di non esaltare le autrici, costruendo così un contraltare opposto in correlazione essenziale all’approccio patriarcale, ma di presentare il percorso creativo delle donne, che “come un fiume carsico, attraversa il secolo scorso” per oggetti e progetti. È così: raccontare le donne nella storia della cultura è proprio questo spostare confini, travalicare generi e abitudini e fondarsi saldamente nella realtà storica.
Il progetto si spinge – qui noi siamo più titubanti – fino all’analisi di come la differenza di genere, cioè l’essere donna, si manifesti nel rapporto con la committenza, nelle fasi di progettazione e realizzazione e persino nel rapporto con i luoghi e il loro specifico genius. S’indaga e si ricerca una caratterizzazione femminile della creatività, che sarebbe basata “sull’accoglienza e sul prendersi cura”, una “creatività morbida e accogliente che aleggia in tutta la mostra”. Su questo, come detto, la seguiamo con riluttanza: paventiamo, dubitiamo, c’interroghiamo: che questa impostazione sia più frutto di una costruzione sociale di genere che di una libera scelta creativa?
Concordiamo invece, dopo aver visitato la mostra, che vi domini una visione del progetto creativo, imprevedibile, improvvisa e incontrollabile. Di una creatività “fertile, caotica ad alto contenuto innovativo”. “Nulla di monolitico, nulla di definitivo, molta ironia e leggerezza, una visione pacificata e positiva. Una creatività liberata. Elegante, che esprime una fortissima vitalità”, dice Annichiarico. Anche qui esprimiamo timide e rattristate riserve su aggettivi come “incontrollabile” e sull’idea di un “investimento emotivo e il coinvolgimento affettivo che libererebbe il design femminile dell’ordine “della ragione e del tornaconto, del profitto e della funzione”. Impostazione che forse fa delle disegnatrici italiane delle grandi visionarie, a detrimento della concretezza progettuale e dell’inserimento nel sistema produttivo.
Pecunia non olet…
Margherita Palli ci conduce, attraverso un ponte, all’interno del corpo femminile e alla sua intimità, un grande utero con sussurri e merletti che narra, con un’atmosfera irripetibile, di antichi lavori femminili, recuperando la storia e gli ambiti operativi tradizionali e mitici (Penelope, le Parche, Aracne e Arianna…) in cui le donne hanno lavorato. In mostra anche splendidi e recentissimi saggi di questa tradizione, come il Mantello della regina delle nevi di Sabrina Mezzaqui. Qui, fra gli altri, il Libro cucito di Maria Lai (1979) e il Libro del mare di Franca Sonnino (1983).
Il percorso pensato come fluido, come fiume in piena, arcuato e luminoso – ahi ahi… com’è forte, troppo forte, e scontato, il richiamo all’acquaticità ogni volta che si parla di femminile – si articola nelle sezioni intitolate Intrecciare e Procreare.
Magia pura. Intrecciare (ma c’è anche anche tessere e tramare) ha la suo centro il rosso della tenda di Carla Accardi (1965), stanza casa e luogo dove convergono arte e vita, trasformazione di uno spazio dipinto in luogo reale.
Avete mai costruito una capanna da bambina? Io sì, due volte.
Si prosegue con la sezione Procreare, percorso cronologico che vede la Scatola dei solidi geometrici di Maria Montessori, il bacio Perugina e il pettine per conigli d’angora di Luisa Spagnoli, una celebre sedia di Lina Bo Bardi (1948), gli elementi componibili disegnati da Anna Castelli Ferrieri negli anni Sessanta, che sono un grande successo di Kartell e la poltrona in vetro Ghost di Cini Boeri e Tomu Katayanagi, frutto di un particolare procedimento produttivo.
Alle nostre spalle si susseguono le immagini della sezione Proteggere, figure di sante protettrici interpretate da disegnatrici italiane, che sottolineano il rapporto intenso fra le donne e gli oggetti di lavoro quotidiano, fra il sentimento religioso e la vita di tutte.
Rappresentare è un momento di approfondimento sugli elementi dell’allestimento e delle scene realizzate per la mostra, mentre Riflettere è l’occasione che ci sarà durante tutto il periodo della mostra, attraverso tavole rotonde e incontri, di conoscere curatrici, galleriste, docenti, giornaliste e archiviste di oggi, parte integrante, come detto, del sistema Design.
Grande la presenza del colore ovunque, molti gli oggetti autoprodotti che sono veri e propri manufatti artistici al confine tra progettualità e arte, diffusa e onnipresente l’ispirazione alla natura, ai fiori, ai frutti, agli animali, come per l’Albero ai ferri di Paola Besana (1974), per le Metamorfosi vegetali di Francesca Lanzavecchia e Hunn Wai e per le creazioni boschive di Alessandra Baldereschi (2015).
Visioni sconfinate irreali e fantastiche sulla vita di ogni giorno, sguardi eccentrici scanzonati, alchemici, come in Tavolo tour del 1993 di Gae Aulenti, prodotto da FontanaArte, il set per olio e aceto Extra Vergine di Nunzia Carbone, la tavola imbandita di Kazuyo Komoda, in cui gli oggetti fanno capolino al di sotto, perché non tutti devono stare per forza seduti composti… il rossetto di Silvia Monera che spunta da un proiettile (2000), il portaoggetti su ruote, fatto di scatole sproporzionate che sembrano sul punto di cadere di Giovanna Caminiti (2008), e i guanti di plastica con le unghie dipinte di Aurora Biancardi (2013), una vera una botta in testa d’ironia e straniamento…
Mille oggetti per trasformare e trasformarsi, come i copricapi: il cappello rosso e floscio di Anita Pittoni del 1940, il turbante rosso di Nina Yashar, un po’ la sua cifra, del 1989; rosa, traforato e trasformabile, quello di Giorgia Brusemini (2000) e nero quello meraviglioso di Antonina Nafi De Lica ed Elena Todros (2014). Stupefacente nella sua decoratività, rigida e frivola insieme, il reggiseno di Valeria Scuteri (2012).
Molti i cesti le scatole e i vasi, l’indimenticabile Mani di Antonia Campi, del 1950, e Primavera di Cinzia Anguissola d’Altoé del 2003. Strabiliante il Servizio da the del 1952 di Muky Wanda Berasi, così malleabile e ricamato, le tante bambole e il Topo Gigio di Maria Perego, e poi i manifesti elettorali e le copertine delle riviste, i foulard e le sciarpe, i tessuti, le scarpe e oh i gioielli, e gli incredibili lettini per bambini, quello più poetico, di Anna Valsecchi Womby, sembra ricavato da un violino bianco.
Alzi la mano chi di noi non vorrebbe essere circondata da oggetti così, così speciali e parlanti, fino a farti ridere e ammattire e struggere di delicatezza… e chi non vorrebbe crearne, produrne su scala industriale o custodirne o venderne….
Ecco, appunto, gli infiniti presenti, verbi senza un soggetto grammaticale definito, né maschili né femminili… azione e cosa insieme.
Citando Annichiarico:
L’azione diventa cosa. La cosa è azione. Infinita. Per tutti. Qui e ora. Senza rimpianti, senza fughe in avanti. Guardando negli occhi il gesto e la cosa. E il loro implicarsi reciproco. Tramare, ora e ancora. All’infinito. Infinito presente.
Visitate questa mostra immaginativa e comprate pure il catalogo. Ne varrà proprio la pena.
Questo il sito per le informazioni.
Loredana Metta
Lartediparte[@]gmail.com
1 commento
LE MIE SCUSE
Per una disdicevole distrazione ho scritto in modo errato il nome della curatrice Silvana AnniCchiarico, me ne scuso con lei e con tutte le lettrici e i lettori.