La parità di genere? Si conquista (anche) attraverso il linguaggio
di Valeria Benedetto
A che punto siamo con il progetto dell’eliminazione del sessismo linguistico e per promuovere un linguaggio neutro dal punto di vista di genere? L’ 8 Marzo scorso, nell’ambito degli eventi organizzati per riflettere sulla condizione femminile, alla Cavallerizza Reale di Torino si è tenuta la presentazione della Carta di intenti: “Io parlo e non discrimino. L’uso non discriminatorio della lingua dal punto di vista di genere”.
Questo documento è rivolto a superare le discriminazioni nel linguaggio di uso quotidiano per far sì che le istituzioni, le amministrazioni , le aziende ,i media e i soggetti privati “vogliano impegnarsi in questo percorso costruttivo per superare le differenze linguistiche che ostacolano una piena parità fra uomo e donna”. La Carta, nata da un ordine del giorno proposto in Consiglio comunale dalla consigliera Laura Onofri, si è sviluppata grazie all’impegno di un gruppo di lavoro costituito dalla Regione Piemonte, la Città di Torino, l’Università, il Politecnico di Torino ed il Consiglio Regionale del Piemonte. Essa è stata illustrata al pubblico da professoresse universitarie del calibro di Cecilia Robustelli: linguista, esponente dell’Accademia della Crusca e docente all’Università di Modena e Reggio. Nel suo “Donne, grammatica e media” ci ricorda che la parità dei diritti passa dal riconoscimento delle differenza di genere, anche attraverso l’uso della lingua.
Infatti, sebbene siano trascorsi 30 anni dalle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini, rimangono ancora delle lacune, soprattutto da parte dell’ informazione, che vanno colmate con l’aiuto corretto della grammatica. Nello specifico esse riguardano l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali: ministro-ministra, architetto-architetta, il presidente- la presidente, senatore-senatrice.
La lingua italiana contemporanea si evolve sotto la spinta delle trasformazioni sociali e culturali ma resistono dubbi e perplessità circa l’adozione del genere femminile per i nomi professionali “alti” mentre sono di uso comune e non trovano nessun ostacolo i sostantivi più “umili” come operaia, infermiera. Si può affermare che,esistendo un legame tra l’uso del linguaggio e la disparità sociale del potere, in qualche modo esiste anche una “resistenza” nell’uso della lingua a riconoscere le posizioni di ruoli e professioni delle donne a cui si attribuiscono nomi maschili falsamente neutri. Il concetto di genere rimanda quindi alla costruzione storica della rappresentazione e dell’identità femminile legata ancora a stereotipi che ostacolano e delimitano il ruolo della donna nell’ordine sociale. Appare dunque evidente che il tema, pur di natura grammaticale, rientra nella sfera della discriminazione verbale, la quale sottintende una discriminazione più forte, di tipo sociale.
“Il linguaggio è importante; anche quando le donne sono ai vertici delle istituzioni o comunque hanno ruoli di primo piano e non viene loro riconosciuto il genere femminile”. A dirlo è la dato la Presidente della Camera Laura Boldrini: “se una donna che è in polizia è un commissario, è la commissaria di polizia e non il commissario perché altrimenti non le si concede neanche il genere e così in Magistratura è la giudice e non il giudice perchè se io attribuissi ad un uomo una connotazione femminile quest’uomo si ribellerebbe. Allora il rispetto passa anche attraverso la restituzione del genere “.
Ma, in concreto, cosa è stato fatto per “restituire il genere”? L’assessora regionale alle Pari opportunità Monica Cerutti ha ribadito che la Città di Torino si è fatta promotrice, insieme ad altre amministrazioni del territorio, della Carta d’Intenti “Io Parlo e non Discrimino”, impegnando i soggetti sottoscrittori ad adottare linee guida che permettano di eliminare forme di discriminazione di genere negli atti, nella documentazione, nella modulistica e nella comunicazione. Va ricordato che, sulla base di questi presupposti, nel 2007 è stata emanata dai Ministri per le Pari Opportunità e per le Riforme e l’Innovazione nella P.A. la Direttiva “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche” indirizzata a cambiare il linguaggio utilizzato iniziando proprio dagli enti pubblici.
Dunque, L’Assemblea ha già recepito la Carta, che deve però essere in continuità con un lavoro più ampio. Anche se lo Statuto è stato modificato, la Regione è in ritardo sulla parità di genere, dato che le ultime tre competizioni elettorali non hanno affrontato il tema, se non in modo marginale, occupandosi perlopiù dell’aspetto relativo al linguaggio utilizzato negli atti amministrativi e legislativi.
Va detto che la Regione si aspetta passi in avanti da parte degli altri enti, Province e Comuni, più vicini alle singole realtà locali. Essi dovrebbero intervenire in modo mirato per superare le forme discriminatorie nel linguaggio di genere e per sensibilizzare ulteriormente cittadini e addetti ai lavori per una cultura non discriminatoria.
Per questo è interessante sapere come si muoverà la nuova amministrazione comunale torinese che, in campagna elettorale, ha puntato molto sul fattore “candidata donna” Per il momento, la sindaca ha promesso il suo impegno nel ridurre le discriminazioni e promuovere azioni di sensibilizzazione utilizzando anch’essa la Carta nel proprio territorio con la collaborazione dei media locali e sensibilizzando le scuole, gli enti e le associazioni per iniziare ad educare alla cultura del riconoscimento dei generi nel linguaggio. Resta da capire quanto effettivamente verrà realizzato, e quanto, è il caso di dirlo, resterà sulla Carta. Un esempio concreto, per iniziare, potrebbe essere la correzione della targa apposta nel giardino di Via Servais : è tempo che Marie Curie torni “scienziata” e non “scienziato”.