Ho due figlie e un figlio. Non li ho dati alla patria, ho dato a loro la vita.
Non ho risposto a un dovere sociale, ma a un intimo desiderio di maternità. Perché quel corpo era mio, e di nessun altro.
Vivo in un paese che pensavo laico e soprattutto impegnato con il rispetto della Costituzione ad allontanarci sempre più dal fascismo. Poi entro in rete e scopro che il Ministero della salute (non un gruppo di integralisti) ha istituito il Fertility day, una giornata per la promozione della fertilità. Una campagna con tanto di cartoline illustrate, dove la fertilità viene definita un “bene comune”, dove le scarpette in lana lavorate a maglia sono avvolte dal tricolore.
Si esortano i giovani ad essere creativi facendo figli e poco importa se non avrai servizi, trasporti, asili; se il lavoro sarà ancora più precario, se per pagare un affitto ti priverai del cinema, di una sera a teatro, di un aperitivo con gli amici, di un viaggio. Ci sarà la tivù ad allietarti le serate facendoti sentire meno sfigata per dieci minuti.
Una campagna in perfetta sintonia con l’esponenziale aumento dell’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici che ti nega il diritto acquisito di non diventare madre (mentre l’aborto clandestino cresce con numeri che giovano solo a quei medici meno inflessibili nel loro studio privato).
C’è la cartolina anche per chi non ha ancora assolto al suo “compito sociale” con tanto di clessidra che ricorda che il tempo passa e la fertilità diminuisce e poco importa se stai facendo altro, se la tua realizzazione personale passa attraverso altre esperienze.
Ho tante amiche che non hanno figli, non li hanno desiderati e hanno desiderato altro. Le loro esistenze non sono meno ricche e soddisfacenti della mia, la vita sì è un contenitore (non l’utero) da riempire con le cose che vuoi.
Il fascismo ci celebrava unicamente come mogli e madri, il femminismo ci ha liberate; dove ci porta ora questa gestione conservatrice di ambiti (salute, istruzione) che incidono quotidianamente sulle nostre vite fin dall’infanzia?
Chi la desidera questa maternità ri-celebrata come orgoglio nazionale, che a Sanremo portò la famiglia Anania con i suoi 16 figli, una moglie muta e un padre fiero che li nominava per numero? Questa maternità che trionfa sulle passerelle sotto le note di Viva la mamma (dove i frutti della maternità sono ovviamente griffati dalla nascita), che ci vuole belle e seducenti con il pancione e con altri pargoli per mano, in cucina a mescolare il ragù più buono col tacco dodici mentre sogniamo una lavatrice più sofisticata?
Non la vogliamo noi donne, non la vogliono le ragazze.
Dateci servizi, lavoro, rispetto. Poi decideremo se pensare o meno alla maternità.
Una signora anziana mi raccontò di non aver portato la fede al duce perché «Era mia, non del duce nè della sua guerra». Forse dobbiamo ritornare nelle piazze a gridare che l’utero è nostro, che la vita è nostra e ce la gestiamo noi.