Umoya una collettività assolutamente femminile in Kenya Anche se qualche uomo serve a scopri procreativi.
Nel 1990 Rebecca Lolosoli giaceva in ospedale, reduce dalla brutale aggressione subita a opera di alcuni uomini contrari alla sua propaganda sul riconoscimento dei diritti civili. Era stato allora che aveva cominciato a fantasticare sull’ipotesi di creare una struttura esclusivamente femminile. Da quel sogno era sorta Umoya, piccola oasi di pace immersa nel territorio nord keniota dei Samburu, tribù patriarcale semi-nomade affine ai Masai.
Inzialmente circoscritta a 15 vittime degli orrori perpetrati dai soldati di Londra durante l’epoca imperiale (il Kenya cessò di essere Colonia e Protettorato della Corona nel 1963), si è rapidamente trasformata in meta privilegiata di malcapitate in fuga dalle crudeli consuetudini tribali (matrimoni precoci, mutilazioni genitali, violenza domestica e sessuale).
La prospettiva di poter condurre un’esistenza scevra da discriminazione di genere, sottomissione e brutalità di stampo maschile ventilata dalle veterane ha notevolmente contribuito ad accescere la popolarità di quel particolare sito recintato da cespugli di rovi oltre i quali si intrecciano percorsi individuali di soprusi e sconforto. Esperienza seducente e promettente, talvolta addirittura imprescindibile al fine della mera sopravvivenza: non a caso alcune sono state indotte a decidere di abbandonare definitivamente i rispettivi villaggi di provenienza a favore dell’appartenenza comunitaria.
“Sono stata barattata con le mucche quando avevo solo 11 anni: mio marito ne aveva 57. Così sono scappata dopo un giorno di matrimonio e vivo qui dal 1998“, è la testimonianza offerta da Memusi, che ha da poco ripreso a confidare nel futuro. “Mi hanno accolta sei anni fa perché non volevo sposarmi. Adesso mi sveglio contenta, perché so di poter confidare sull’aiuto di tutte“, ha incalzato la 19enne Judia, il viso illuminato da un sorriso smagliante.
“Qui ho imparato a fare le cose che solitamente ci sono vietate”, ha raccontato una cinquantenne con cinque figli. “Ora posso guadagnare e amministrare il mio denaro. E sono orgogliosa se qualche visitatore acquista una delle mie creazioni artigianali“.
Sebbene la frugalità sia la regola essenziale della collettività (attualmente estesa a 50 donne e 200 bambini), nessuna è dispensata dagli oneri contribuitivi inerenti il sostentamento, l’abbigliamento o la costruzione di capanne. Nemmeno le anziane, a cui spetta la gestione del campeggio lungo il fiume in cui abitualmente soggiornano turisti attratti dalle locali riserve naturali: un obolo modesto, accompagnato dalla speranza che qualcuno possa decidere di spingersi anche a Umoya e magari acquistare i monili fabbricati negli appositi laboratori.
La gioielleria ha una valenza non indifferente nella tradizione Samburu: nel corso di una cerimonia di iniziazione destinata a culminare in nozze temporanee combinate dai familiari, le ragazzine ricevono dal padre la collana che sancirà il passaggio all’età adulta. Una ritualità che i bimbi di Umoya, scevri da coercizioni, imposizioni e punizioni, non conosceranno forse mai.
“Altrove dominano gli uomini, le donne si limitano a soffrire in silenzio“, ha puntualizzato Seita Lengima. “Noi invece siamo libere e felici“. Malgrado le frequenti minacce da parte dei detrattori (sono in parecchi ad auspicare il fallimento dell’iniziativa di Rebecca), la serenità sembra effettivamente prevalere.
Il clima di cordialità e allegria da cui l’intero ambiente è pervaso contrasta sensibilmente con l’oggettività circostante: del resto l’intraprendenza femminile non ha mai destato entusiamo nei presunti detentori del potere.
L’unico esponente del sesso opposto ammesso nel contesto è Lotukoi, preposto alla cura del bestiame. “Loro cucinano, badano alla casa, si occupano di affari. Io vengo ogni giorno da una località vicina e mi fa sorridere l’idea che la presenza maschile sia bandita nonostante le continue nascite. Evidentemente frequentano qualcuno“.
Insinuazioni avvalorate dalle esternazioni di un pragmatico leader tribale dell’area: “Laggiù maggioranza dei miei conoscenti vanta tre-quattro mogli desiderose di solitudine, convinte di poter davvero rinunciare alla compagnia maschile. E questo è semplicemente assurdo. Tante partoriscono, quindi non è azzardato supporre rapporti clandestini“.
L’enigma è stato svelato da una delle dirette interessate alla controversa questione: “Anche se devono restare lontani, i maschi sono indispensabili per la procreazione. La nostra cultura non contempla la maternità estranea a un’unione stabile, tuttavia la sterilità è inconcepibile: senza figli insomma siamo totalmente inutili“.
Alcune però hanno individuato in Umoya un rifugio tranquillo in cui tentare di seppellire definitivaente un passato gravido di dolore. “Sono stata violentata dai britannici e non riuscirò certo a trovare un marito in grado di accettare l’accaduto. Perciò credo di non avere altre alternative“.