Attesissimo dalle fan di tutto il mondo, ecco arrivato nelle sale Bridget Jones’s Baby, il terzo film che vede narrate le vicende della imbranata single inglese.
Sono pochi i film in serie che mi piace vedere: posso dire che, anzi, li rifuggo. Di solito mi fermo al primo e snobbo le seconde o terze uscite. Mi pare di rimanere fedele ai personaggi e non diventarne schiava. Inoltre, trovo sempre da ridire sulle trasposizioni cinematografiche dei libri. E il film in questione è anche questo. Cos’ha, dunque, di speciale per avermi spinta a prendere subito i biglietti?
C’è una ragione puramente sentimentale dietro l’affezione forte che mi lega al personaggio interpretato da Renée Zellweger: la lettura del libro di Helen Fielding avvenne mentre scrivevo la tesi e trovai accattivante e divertente il Diario di Bridget Jones per come riusciva a trattare l’amore e le paure femminili senza mai scadere nel pesante o – peggio – nel patetico.
Subito organizzai un gruppo di amiche e amici per vedere il primo film uscito nel 2001 e il giorno dopo, tutti insieme, andammo al cinema per Che pasticcio, Bridget Jones, ed era il 2004.
Ci vollero pochi indizi per capire che la signorina Bridget sarebbe divenuta un personaggio iconico: modi di dire, stile delle battute, i suoi mutandoni panciapiatta, i suoi buoni propositi disattesi, la lotta con la bilancia, i genitori che vorrebbero vederla accasata. La sua forza era ed è l’assoluta normalità. Non una bellona patinata, non una dalla cultura smisurata ma comunque una donna intelligente, autonoma e generosa. Facile e spassoso l’identificarsi con lei, almeno per uno dei suoi lati caratteriali. A me, ad esempio, piace da morire l’idea del diario su cui annotare le proprie riflessioni come pratica di autocoscienza.
Il gioco del triangolo amoroso, con tanto di nome preso a prestito dalla grandissima Jane Austen (l’impettito Mark Darcy dell’attore Colin Firth), non poteva che risultare vincente, è uno schema classico, riproposto in chiave moderna e dinamica, con una punta di tagliente ironia. E sottolineo, però, che nessun personaggio maschile riesce mai a togliere spazio alla esuberante trentenne che ne combina sempre qualcuna, al lavoro, come nella vita privata. Una commedia ben riuscita, il primo. Meno brillante, il secondo. Rimaste impresse nella memoria le colonne sonore, vere chicche capaci di dare enfasi allei scene particolari.
Dopo annunci e smentite durate anni, le riprese sono state confermate e presto il trailer e la locandina hanno fatto capolino sui vari social. Non ci sarebbe stato il personaggio di Daniel Cleaver interpretato da Hugh Grant, ma un nuovo uomo avrebbe fatto capolino nella vita di Bridget, oramai quarantenne.
Come da copione, la brava Renée Zellweger è stata anche al centro di un pettegolezzo velenoso sul suo presunto ricorso alla chirurgia estetica in vista di questa nuova interpretazione del personaggio che più di altri l’ha resa amata e conosciuta. Non solo, ad ogni ciak di chiusura viene assalita dalle critiche perché ritorna velocemente al suo peso solito (la soprannominano Bridget Bones) e rinuncia alle rotondità che esibisce nella parte che le è stata affidata, nonostante lei specifichi sempre di essere seguita da un nutrizionista per calarsi nel ruolo e di non avere disturbi del comportamento alimentare.
Non farò spoiler sulla trama, tra l’altro giù abbondantemente svelata dagli incalzanti spot che hanno preceduto l’uscita. Ero curiosa di vedere se l’alchimia del primo film si potesse riprodurre in una situazione spostata nel tempo e con l’aggiunta di spalle di tutto rispetto come Patrick Dempsey ed Emma Thompson e con il diario rosso sostituito da un I-Pad. L’esperimento mi pare abbastanza riuscito se lo si prende con molta ironia e si fanno i conti con una protagonista non più in lotta con la bilancia. La convivenza tra trentenni e quarantenni, le amiche etero e gli amici gay di Bridget tutti accasati e con prole, i genitori anziani ma super attivi (come sempre, la madre più del pacifico padre), i problemi sul lavoro, la troppa presenza della tecnologia (pc e smartphone ovunque) e il solito humour inglese sull’essere zitelle e non madri sono alcuni temi presenti.
Che di un film sulla “questione femminile” si tratta, lo si evince dalla comparsa di un gruppo simil-Femen che rivendica continuamente la libertà delle donne (ma intralcia il traffico) ed è uno spunto per l’anziana madre di Bridget che dice “Manifestano per i diritti delle donne, ma a me pare che ne abbiamo già avuti” e si affretta al capezzale della quarantatreenne figlia primipara attempata della quale si era vergognata perché madre single.
Dunque, se dovessi consigliare di vederlo, lo farei. Devo dire che il pubblico maschile che era con me ha riso e pure fatto molti commenti sui comportamenti femminili. Le signore in sala erano tante, alcune con figli adolescenti (e la cosa mi è piaciuta) e poi le ragazzine fan storiche come me. Non posso dire che il finale sia in linea con una emancipazione totale che pareva racchiusa nel titolo, ma è una commedia romantica e come tale va portata a termine. Avrei evitato alcuni momenti di smarrimento totale dove la salvezza giungeva solo da un uomo, ma per Colin Firth posso fare un’eccezione!