Nell’ambito della ricerca di Toponomastica femminile emergono nuove realtà che confluiscono nella mostra itinerante e in continuo sviluppo su “Donne e lavoro”: è il caso delle coloriniste che ritoccavano le cartoline.
Le cartoline fotografiche, popolarissime nei primi due decenni del secolo scorso, avevano diverse funzioni: vi si poteva aggiungere un messaggio nello spazio bianco sul retro, venivano utilizzate come biglietti da visita, per la pubblicità, come ricordo. Spesso erano stampe al bromuro d’argento cui si aggiungeva il colore a mano, intervento che conferiva unicità alle immagini prodotte in serie.
Con il suo affettuoso ricordo, Giuseppe Rissone ci testimonia l’esistenza di questo lavoro a Torino ancora negli anni ’40.
“Coloriniste” a Torino. Le cartoline di Vincenzina
di Giuseppe Rissone
Che lavoro fa tuo papà? Questa è una delle domande che i bambini si sentono ripetere più spesso. Proviamo a pensare a questo interrogativo posto alla metà del secolo scorso, non per il lavoro del padre ma della madre. Poco verosimile: era una cosa alquanto rara che una donna avesse un’occupazione dopo essersi sposata. Facevano eccezione le insegnanti, impegnate fuori casa mezza giornata.
Anche mia madre aveva lavorato da ragazza ed è del suo lavoro che voglio parlare.
Vincenzina, questo il suo nome, aveva lavorato per alcuni anni in un’azienda torinese, a pochi passi dal parco del Valentino. Si era agli inizi degli anni ’40, in piena 2^ Guerra Mondiale. Vincenzina svolgeva un lavoro di tipo artistico poco conosciuto, quello della colorinista. Colorinista, sì, questo era il termine con cui venivano chiamate le ragazze che con pennelli minuscoli e binocolino da orefice – per poter vedere anche i particolari più piccoli – trasformavano le cartoline e i bigliettini d’auguri dal bianco e nero al colore.
Un’immagine mi è rimasta impressa nella memoria, quella di un enorme salone con file di tavoli molto grandi, e un discreto numero di ragazze intente a dipingere… Immagino Vincenzina presentarsi al lavoro sempre elegante, ben pettinata e truccata, sedersi al proprio tavolo e, mentre colorava cartoline grandi e piccole, dispensare sorrisi e chiacchierare con le colleghe. Poi la pausa pranzo doveva essere un momento piacevole per le ragazze che passeggiavano per il parco del Valentino.
L’azienda per cui lavorava Vincenzina si chiamava Fotocelere ed era stata costituita nel 1908 in via Marocchetti a Torino, con oggetto “l’applicazione in genere commerciale e industriale dell’arte fotografica e specialmente la fabbricazione delle cartoline al bromuro d’argento”.
Provate adesso ad immaginarvi una cartolina di normali dimensioni, che rappresenta un bel panorama.
Ne ricordo una in particolare, Vincenzina la custodiva in una credenza. Il soggetto era il Golfo di Napoli, con in primo piano un asino che trainava un carretto. Ogni parte della foto era ricoperto da una leggera pennellata di colore. La cartolina aveva così un aspetto particolare: il lieve strato di colore sulla sua superficie non cancellava del tutto il bianco e nero ma lo rendeva più luminoso. Poi con l’avvento delle foto a colori tutto finì, e anche le ragazze come Vincenzina lasciarono l’edificio di via Marocchetti.
Enzo Jannacci scrive nel 1974 la canzone “Vincenzina e la fabbrica”, brano che descrive il rapporto degli operai con il mondo della fabbrica attraverso il ritratto di una ragazza emigrata dal Sud che affronta la realtà industriale. Storie di due Vincenzine diverse, accomunate, in epoche diverse, dal tentativo di uscire dallo stereotipo donna = casalinga, perché la Vincenzina di Jannacci vuol bene alla fabbrica come la “mia” Vincenzina voleva bene alle sue cartoline.