Arcangela Tarabotti vedeva nella istruzione forzatamente mancata delle donne nel Seicento un problema reale che condizionava l’intera società poiché senza un’istruzione, le donne sarebbero state ancora escluse dalle cariche pubbliche, dalle professioni, dalla società.
di Silvia S. G. Palandri
Nella Venezia del XVII secolo, in cui le lotte con i Turchi erano ormai meri screzi dopo la vittoria di Lepanto, la Serenissima godeva di un periodo di pace e prosperità, fiorenti erano infatti i suoi commerci nel Levante e nel Mar Nero, era padrona dell’ingresso dell’Egeo.
La Repubblica di San Marco rappresentava l’emblema della prosperità, della cultura, del divertimento, dello sfarzo, della moda e del costume e le sue istituzioni ne ricavavano a loro volta lustro e prestigio; era il risultato delle sue politiche e del suo governo: era stimata, riconosciuta e riverita.
C’era a Venezia nel 1600 però anche qualche voce dissonante, le voci delle donne. Così, al fianco di quella colta di Lucrezia Marinelli e di quella letterata di Moderata Fonte, se ne alzò anche una dal chiuso di un convento che riuscì tuttavia a far sentire quale fosse la realtà sociale di molte delle donne veneziane.
Le numerose guerre degli anni passati da cui usciva Venezia, avevano causato alterne crisi economiche, per cui era stato necessario innalzare la dote maritale per salvaguardare la classe nobiliare. Questa strategia politica rese più vantaggiose le meno esose doti dei Conventi e incoraggiò le famiglie veneziane a far monacare a forza le proprie figlie per proteggere il patrimonio familiare o per trovare una sistemazione a quelle meno piacenti o con qualche difetto fisico. Tale fu la sorte di Elena Cassandra Tarabotti che nel 1620 viene fatta monaca nel convento di Sant’Anna da cui non uscirà più.
Essa fu l’emblema delle monacazioni forzate ma questo aspetto è solo un lato di una questione più complessa, infatti Tarabotti riflettendo sulla sua condizione di monaca senza vocazione, riesce a trovare le motivazioni sociali della subordinazione femminile che è una condizione socialmente ereditata. Questa sua presa di coscienza diventa la base per ricercare una rivalsa della condizione femminile: da vittima diventa combattente e la sua cultura, vasta ma non accademica, diventa la sua arma. Nelle sue opere Tarabotti individua, partendo dalla sua situazione personale, una condizione comune alle donne veneziane, il cui mezzo di riscatto è l’istruzione. Infatti, tramite la cultura, che deve diventare appannaggio anche delle donne, essa sogna una rivincita del genere femminile.
In tutti i suoi scritti, incentrati sulla difesa delle donne, denuncia quella che lei stessa definirà la “tirannia paterna”, emblema del più ampio potere dell’uomo sulla donna . Ricorda nelle sue opere quanto la situazione femminile dipenda non da un’inferiorità insita nella natura delle donne, come gli intellettuali dell’epoca sostenevano ma da costruzioni sociali che condizionavano la vita femminile. L’inferiorità femminile era sancita da una condizione giuridica, economica, patrimoniale e sociale che non permetteva, in maniera sostanziale, alle donne di essere libere.
Accusa nei suoi scritti, l’istituzione familiare, il padre traditore che mistificando anche le Sacre Scritture inganna la propria prole per rinchiuderla in convento ma critica anche lo Stato veneziano perché antepone la Ragion di Stato alla salvezza delle anime delle sue cittadine, sacrificando la vita di queste donne per meri scopi economici ed infine però incolpa anche l’autorità religiosa che vede inerme quando non collusa: “[…] l’interesse di Stato, padre di tutti gli errori, contamina anche questi supremi ministri i quali per tal causa permettono che si facciano monache delle fanciulle che hanno ben altre aspirazioni”
Tarabotti era poi particolarmente risentita dal disprezzo che gli uomini usavano nei riguardi delle donne, riteneva vigliacco da parte loro prendersi gioco delle donne in quanto ignoranti e allo stesso tempo però negare loro un’istruzione.
Essa capisce che alla base dell’emancipazione da una condizione socialmente ereditata, basata su significazioni maschili che la donna si trovava a subire da secoli, c’era l’istruzione. Individua in questa mancanza la base della fragilità femminile; l’incapacità di interpretare la realtà e di gestirla dipendeva dal fatto che esse non erano ritenute idonee ad avere un’educazione. Essa capisce, dal chiuso del suo convento, grazie alla sua cultura da autodidatta, che le permette però di confrontarsi senza vergogna con gli altri intellettuali del suo tempo e di riscuotere critiche ma anche consensi e fama non solo in Italia ma anche all’estero, che alla base della libertà c’era l’istruzione.
Nell’ambito della così detta “querelle des femmes” che nel Seicento riguarda proprio il tema dell’istruzione femminile che veniva concepita solo come mezzo per placare e contenere la natura malvagia e falsa della donna, anche per coloro, pochi, che sostenevano la necessità di un’educazione femminile era necessario limitarne l’applicazione alla realizzazione personale delle donne che era necessariamente legata ai lavori domestici e alla cura della prole.
Tarabotti invece vede in questa lacuna un problema reale che condizionava l’intera società poiché senza un’istruzione, le donne sarebbero state ancora escluse dalle cariche pubbliche, dalle professioni, dalla società. Arcangela Tarabotti, nel XVII secolo, individua nella mancanza di rappresentatività femminile un perno sociale essenziale senza il quale la società non funziona, perché alle donne non sono garantite le stesse opportunità. Quindi, istruzione anche come sinonimo di possibilità che vanno date realmente al genere femminile, altrimenti, come sosteneva: “Non resta che perdere, a chi ha perduto la libertà”
Pretende quindi un’istruzione finalizzata ad un valore sociale che le donne dovevano acquisire: il lavoro, e la possibilità di occupare anche cariche pubbliche per contribuire così attivamente alla società da attrici significanti, grazie ad un’istruzione che doveva arrivare fino ai massimi livelli: “Permettete alla donna di frequentare la scuola, ammettetela nelle vostre università e vedrete s’ella non saprà professare quanto voi la magistratura, la medicina, la giurisprudenza e il resto”
Sostenitrice della libertà personale con la quale le donne e gli uomini nascono, vede nella eterogeneità della natura, di cui l’uomo e la donna fanno parte, una chiara manifestazione del libero arbitrio e quindi anche delle inclinazioni personali che alle donne sono negate, perché troppo condizionate da schemi estranei fino al punto di impiegare le loro vite a ricercare la conformità con modelli sociali imposti ma che in realtà non rappresentavano la vasta gamma delle sensibilità femminili che rimanevano inespresse e che le donne stesse si convincevano di non avere, ritrovandosi così a sprecare la loro vita nella ricerca di un modello che non apparteneva loro.
Tarabotti , che si definiva “sfornita di scienza”, capisce che l’istruzione rende liberi, che è alla base di una consapevolezza di se stessi che alle donne è sempre stata rifiutata, ritiene infatti l’educazione femminile un mezzo per conquistare e rafforzare la propria consapevolezza e le proprie capacità e volontà; un mezzo per capire la realtà e quindi fonte di libertà di scelta ma anche di libertà economica poiché finalizzata alla possibilità per le donne di lavorare, diventando creatrici di significati sociali, attuando principi di pari opportunità.
Il pensiero di Tarabotti riguardo l’istruzione femminile, quindi è straordinariamente complesso e moderno, un messaggio che riguarda anche la nostra società in cui a parità di educazione, nel mercato del lavoro si assiste ad una disparità salariale sfavorevole alle donne e in cui ancora oggi in politica la presenza delle donne è minoritaria; quello di Tarabotti è un messaggio attuale che attraversa i secoli, un traguardo per lei insperato, che essa stessa non avrebbe mai potuto immaginare, per lei che non poteva essere “una stella errante, ma più tosto una stella fissa, condannata nel cielo di un chiostro per sempre”