AFGHANSTAN. PENE ALTERNATIVE AL CARCERE: L’INCUBO DELLE CONDANNATE
Con la caduta del regime marcatamente misogino e totalistarista dei Taliban (avvenuta nel 2001) e il concomitante insediamento del filoccidentale Hamid Karzai alla massima carica dello stato, la comunità globale aveva ingenumente confidato nel ripristino dei fondamentali diritti civili. Invece né l’ex presidente né l’attuale leader Ashraf Ghani (in carica dal 2014) sono riusciti a scongiurare le discriminazioni di genere nel martoriato Afghanistan.
Penalizzata dalla società e dalle istituzioni, l’altra metà del cielo continua a rimanere nel mirino della magistratura. I pretesti del resto non mancano. Ai procedimenti per omicidio o spaccio di sostanze stupefacenti si affiancano infatti quelli (assai più comuni, dal momento che coinvolgono circa il 95% delle ragazze e il 50% delle adulte) per i cosiddetti crimini di carattere etico quali evasione dalle mura domestiche e adulterio.
Ma oltre alle 850 malcapitate racchiuse ufficialmente nelle sovraffollate galere nazionali esiste una consistente galassia di presunte colpevoli che – a fronte della cronica assenza, in determinate aree, di case circondariali femminili – si ritovano costrette a espiare la pena sancita con modalità alternative alla detenzione in cella in condizioni spesso riprovevole di schiavitù a beneficio dei privati preposti alla loro custodia.
E’ ciò che avviene del resto nella provincia rurale e conservatrice di Patika (tuttora estranea all’autorità giudiziaria del governo federale e per 15 anni destinataria di finanziamenti internazionali pari a decine di milioni di dollari), dove il verdetto di condanna (completamente esulante dal sistema legale vigente nel paese) viene sentenziato dal concilio tribale degli anziani
“Non siamo in grado di stabilire cifre esatte, ma riteniamo che siano centinaia le prigioniere dislocate sul territorio”, ha confermato Alim Kohistani, direttore del servizio carcerario nazionale. “Facciamo il possibile per aiutarle cercando di intervenire per tempo affinchè non vi siano violazione di alcun genere“. Le donne condannate informalmente si ritrovano gravate da incombenze spesso eccessive, senza tuttavia poter invocare un minimo di clemenza.
“Sono stata trattata peggio di un animale“, ha raccontato la 18enne Fawzia, rea di fuga romantica dalla dimora paterna e reduce da un anno e mezzo di inferno presso un nucleo familiare di Sharana. “Non auguro a nessuno di sperimentare una simile sofferenza. In carcere avrei almeno pouto incontrare i parenti “. L’incidenza dei maltrattamenti sfugge in verità a qualsiasi valutazione, poichè i tribunali tendono immancabilmente a ignorare i rari ricorsi presentati dalle vittime: circostanza che contribuisce a incrementare il numero degli stupri. “Queste sfortunate sono considerate proprietà degli aguzzini e quindi sono spesso soggette a varie forme di sopruso, inclusa la violenza sessuale”, ha ribadito l’attivista Zalmay Kharote.
“Talvolta le ragazzine vengono affidate a qualche poliziotta compiacente“, ha puntualizzato Bibi Hawa Khoshiwal, alla guida del dipartimentto provinciale per le questioni femminili. “Ammetto che sia illecito; però i potenziali tutori sono obbligati a firmare un documento che li obbliga all’indugenza. Ovviamente non sempre l’impegno viene rispettato“.
Non è il caso di Khalil Zadran, influente leader di un clan afghano. “Io non ho mai avuto problemi ad accogliere donne in punizione e non ho mai compiuto gesti riprovevoli. Quando ricevo una chiamata dal governatore o dal capo della polizia io sono disponibile e lo faccio per la mia gente. Tra l’altro è così che ho conosciuto la seconda moglie“.