Angela Ferrari architetta, narratrice e illustratrice di storie. Profonda sostenitrice dell’abitare etico dove la vita dell’uomo non è subordinata agli scopi della produzione ma all’ascolto delle persone e della società .
Ho proposto l’intervista ad Angela, Ansgelina nel nostro abituale conversare epistolare, perché ha vissuto e vive nella patria dell’ Architettura moderna del nostro paese con la A maiuscola, la Città dell’Uomo, e – come ci riveleranno le sue stesse parole – da Adriano Olivetti e dalla sua visione sociale, ha ricevuto una immensa e profonda lezione di vita prima ancora che di “abitare etico” in quel luogo divenuto emblema di rispetto ambientale, dove la vita dell’uomo non è mai stata subordinata agli scopi della produzione ma l’ascolto delle persone e della società è sempre stato al centro della politica olivettiana.
E poi mi interessava esplorare e portare alla ribalta la sua duplice attività: quella dell’architetto che penetra nelle quotidianità abitative e le trasforma, e quella della narratrice di storie non solo attraverso la scrittura ma anche con il compendio delle sue illustrazioni cariche di poesia. Come si conciliano le due, anzi per meglio dire le tre passioni, e come Angela viva la sua appartenenza alla comunità di architetti è quanto scopriremo dalla nostra conversazione.
Sei stata incoraggiata alla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Terminato il Liceo Scientifico avevo poche idee ben confuse, come si suol dire. La mia famiglia voleva che seguissi le orme paterne e mi iscrivessi ad Architettura, facendo leva sul fatto che ho preso in mano una matita (per disegnare) forse prima di una forchetta, mentre io opponevo resistenza perché non ero sicura che avrei voluto per me un futuro tutto piante, prospetti e sezioni… Quell’autunno finii per accontentare i miei ed ora faccio la spola tra i progetti di case e quelli dei libri che scrivo ed illustro.
La desinenza in campo professionale è un argomento che mi appassiona poco perché non la ritengo essenziale per farmi sentire più considerata rispetto a un collega. Non sto tra le suffragette del “Datemi una A!” non perché non credo che l’uguaglianza possa passare anche da un nome, ma perché nel nostro Paese certe campagne si fanno più per forma che per sostanza. E, quando non c’è sostanza, le etichette non funzionano. Io, comunque, mi presento come Architetto, gli altri sono liberi di chiamarmi tanto in un modo quanto nell’altro.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Il mio professore di Composizione1 esordì alla prima lezione mostrandoci un suo libro intitolato: “L’edilizia non è Architettura”. Un distinguo essenziale, di cui è stato utile esserne da subito ben consapevoli, così da provare a sognare, ma senza illudersi. Infatti, non so quanti, usciti dalla facoltà, siano poi riusciti a vivere con la seconda.
L’Architettura, con la A maiuscola, è per pochi; l’edilizia, anche buona, è per tutti gli altri.
A chi ti ispiri?
Credo che il compito dell’architetto sia assolto quando riesce a sposare la funzionalità di un edificio con la sua estetica e, fortunatamente, matrimoni perfetti se ne vedono tanti, in giro per il mondo. Abitando ad Ivrea, è stato naturale imparare la lezione olivettiana, con i suoi edifici razionalisti immersi nel verde, progettati per il benessere dei dipendenti (case, stabilimenti, uffici, asili nido, colonie….). Come una meteora, Adriano (Olivetti) ha illuminato una società tornata al buio, dopo il suo passaggio. Provo per lui un misto di ammirazione e gratitudine come per pochi altri.
E cos’è per te la bellezza?
Tutto ciò in grado di declinare lo stupore in meraviglia. Non importa che risponda a canoni armonici o stilemi precisi, quel che conta è che tra il prima e il dopo l’esperienza che vivo, io mi senta umanamente arricchita, personalmente migliorata.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
Forse la differenza sta nel modo di guardare le cose e quindi nell’approccio al progetto. Secondo me la donna ha una visione orizzontale, “ad abbraccio”, per cui ogni aspetto è legato all’altro senza una predominanza marcata, mentre l’uomo possiede una visione più verticale, gerarchica, in cui l’aspetto pratico domina su tutti gli altri.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
Oggi credo sia difficile per tutti. La generazione di mio padre alla mia età era considerata professionalmente arrivata, mentre la mia deve ancora partire!
Sempre più committenti sembrano preferire le donne architetto e anche in cantiere, per molto tempo un luogo somigliante a un gentleman club londinese (quindi off-limits per il gentil sesso), le cose stanno cambiando sempre di più e sempre più velocemente.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Non mi sono mai misurata con progetti tali da richiedere figure professionali in competizione tra loro. Ho visto fare discriminazioni mentre ero all’università, dove certi professori sostenevano, senza nemmeno troppo pudore, il figlio di, il nipote di, l’amico di, per certi incarichi o in alcuni esami.
Insomma, in Facoltà il “di” valeva come il “von” germanico alla corte asburgica.
Qual è il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Io mi occupo principalmente di ristrutturazioni. La loro peculiarità è che ti obbligano ad operare entro certi vincoli dettati dalla progettazione originaria. I vincoli limitano, certo, ma stimolano anche la ricerca di soluzioni non banali, originali. Quando si ha la fortuna di lavorare con committenti che ti danno la loro piena fiducia, il ripagarli con un risultato che li vede pienamente soddisfatti è ciò che mi fa sentire più appagata.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Devo ripetermi: lavorare oggi in Italia credo sia difficile per tutti. Non è una questione di genere. Assistiamo ad un abbassamento qualitativo in tutti gli ambiti la società, in cui all’impoverimento economico si affianca quello culturale, per cui molte regole etiche sembrano non valere più.
Sarebbe utile che ognuno tornasse a fare (bene) il proprio mestiere, rispettando quello degli altri.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Se un novello Darwin oggi scrivesse “L’origine della specie… tecnologica”, io sarei sicuramente classificata come Bradisauro, ovvero un essere metà bradipo e metà dinosauro, perché mi avvicino agli oggetti smart con una lentezza degna del primo, per poi essere vorace e famelica come il secondo.
Nel lavoro, appartengo a quella generazione che ha iniziato con Rapidograph, lamette ed eliocopie. L’avvento del computer è stato innegabilmente un grande supporto tecnologico di cui non farei più a meno ma, che si tratti di architettura o scrittura o illustrazione, io inizio sempre con carta e matita.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
La maggior parte del mio lavoro è tale da non richiedere collaborazioni, però mi capita di seguire alcuni progetti insieme a mio padre.
Quale è stato il tuo approccio nella guida del tuo studio?
Essere consapevole di essere al servizio di qualcuno, per cui sapere di dover ascoltare, progettare, proporre e mai imporre. Non dimenticare mai che la casa appartiene a chi la abita e non a chi la progetta.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Più che darle consigli, le farei gli auguri!
Ho già espresso ciò che penso sull’essere architetti oggi in Italia, per cui la sola cosa che mi sentirei di suggerire è, se è possibile, di fare esperienza all’estero, formativa o lavorativa che sia.
Vedo più spazi, maggiori possibilità rispetto al nostro Paese, che è sempre il più bello del Mondo, ma la bellezza non basta per viverci bene.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
Mi piacciono molto le lampade per gli effetti di luce che sanno creare. Ricordo che da piccola rimasi impressionata dalla Biagio e dall’Arco, forse perché il marmo è la mia radice, mentre da adulta ho molto amato Lucellino di Ingo Maurer, essenziale e, al contempo, estroso. Per quanto riguarda un’architettura, tra le tante forse mi sento di dire l’opera omnia di Cesar Manrique a Lanzarote. Indimenticabili le architetture (spesso bianche) modellate sulla roccia bruna, figlie di quel rapporto Uomo-Natura alla base della sua visione dall’impronta fortemente ecologica.
Come riesci a conciliare la tua attività di scrittura e illustrazione con l’impegno professionale?
Le mie giornate iniziano presto, mooolto presto!
Sto vivendo un periodo in cui riesco a trovare tempo ed energia per entrambi. Organizzo l’una in funzione dell’altro, a seconda delle scadenze di entrambi.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Il caos. Hai voglia di rispondere ai detrattori del genere che si tratta di disordine creativo! La verità è che sono un’accumulatrice seriale di carta, giornali, schizzi, appunti, chiavette, penne, lapis e gomme. Le volte in cui mi rendo conto che è troppo anche per me, mi faccio prendere da decluttering ossessivo e il piano della scrivania torna a mostrare il legno di cui è fatta. Ma è questione di pochi giorni, ça va sans dire…
Una buona regola che ti sei data?
Nel lavoro, si arriva presto e con gli impegni già definiti. Perché l’improvvisazione non è davvero tale nemmeno a teatro.
Il tuo working dress?
Confortevole. Minimalista. Bianco, nero e grigio, come fossi una TV degli Anni ’70. E i jeans (anche fuori dal lavoro). Fino a quattro anni fa, in ufficio mi permettevo pure il tacco, ma da quando ci vado con il mio cane Cosmos (fuori weim, dentro mustang) le sneaker non sono un’opzione, ma la regola.
Città o campagna?
Veramente per me la parola chiave è: mare. Che poi sia un alloggio in città piuttosto che una casa in campagna, poco importa. Ciò che conta è poter vedere e toccare l’acqua salata.
Qual è il tuo rifugio?
Siamo una famiglia di toscani prestati al Piemonte. Il nostro buen retiro di questi anni è una casa appartenuta a mio nonno, aggrappata al fianco delle Apuane, da cui si vede il Tirreno. A nord la Liguria, ad est l’Emilia-Romagna, a sud la Toscana e ad ovest il mare. Se a tutto questo aggiungiamo il mio compagno e Cosmos tutti per me, nonché i miei libri – sia quelli da leggere, sia quelli da scrivere – direi che sono a posto così, grazie.
Ultimo viaggio fatto?
Degno di questo nome, quello in Portogallo nell’estate del 2011.
Il tuo difetto maggiore?
Maggiore nel senso di peggiore, sicuramente il fatto che non perdono chi ferisce con intenzione e senza essere stato provocato, perché sono convinta che sia destinato a ripetersi. Il porgi l’altra guancia è per chi ci crede e, per dirla come un saggio umorista, grazie a Dio sono atea.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
La coerenza, che mai ha abdicato a favore della convenienza.
Un tuo rimpianto?
Essere stata poco coraggiosa.
Work in progress….?
Quest’autunno dovrebbero partire alcune ristrutturazioni e i miei laboratori creativi. Spero di trovare il tempo per dare forma definitiva a due libri per bambini che aspettano già da un po’.
Nel caos della scrivania, ovviamente!