Per Marisa Coppiano fare architettura significa lasciare una chiara traccia del pensiero contemporaneo con una profonda attenzione e riguardo alla qualità dell’abitare, che significa vivibilità, accessibilità, rispetto e attenzione all’impatto ambientale.
Per Marisa, architetta torinese, un ambiente bello predispone l’animo a elevarsi, a esplorare nuovi territori, perché la bellezza proietta verso ciò che è più elevato, verso il regno dei grandi valori. Dopo aver seguito le sue interviste a donne architetto, è la volta di conoscerla più approfonditamente e di comprendere cosa c’è dietro il suo lavoro.
Com’ è nato il tuo interesse per l’architettura? Che studi hai fatto precedentemente?
Ho frequentato il liceo scientifico della cittadina in cui sono nata – Biella – dove ho vissuto i miei primi diciannove anni.
Come scrive Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore tutto ciò che accade nel corso della propria esistenza era già stato scritto:
“Ma come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già da prima, la prima riga della prima pagina d’ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci o cento pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo”
Dico questo perché fin dall’infanzia ho amato la carta e ho trascorso interi pomeriggi a ritagliare da giornali e riviste tutto ciò che mi occorreva per costruire le scenografie che animavano i miei giochi di bimba, nella solitudine che spesso connota i primi anni di vita, tempo in cui non si avverte ancora quella spinta alla socialità, che dalla adolescenza accompagna i più fino alla maturità. Gli anni della scuola elementare hanno purtroppo inciso negativamente rispetto alla progressione di una espressività pura, scevra da condizionamenti, perché mi hanno imbrigliato dentro “il bel disegno”, pratica che impegnava molte delle mie serate coadiuvata dalla passione per il disegnare della mia giovane mamma, che spesso mi aiutava perché sotto sotto si divertiva molto, nonostante i rimproveri di mio padre che non approvava il suo accondiscendere alle mie richieste “di collaborazione”!!! Il mio amore per il disegno e la pittura proseguì poi nel corso della scuola media e anche al liceo ho amato molto le esercitazioni di ornato, cimentandomi nelle tecniche meno canoniche e più sperimentali. Ecco che quando si trattò di scegliere l’indirizzo degli studi universitari in verità non ero animata da un profondo interesse per l’architettura ma allora era comunque l’unica facoltà che mi avrebbe avvicinato alla mia passione più profonda. Leggere tra le materie previste dal piano di studi “Decorazione” piuttosto che “Disegno dal Vero” mi rincuorava perché immaginavo il disegno en plain air e supponevo che mi avrebbe affascinato molto. Non dimentico alla stessa stregua il mio impegno politico fin dagli anni trascorsi in provincia e quindi la possibilità di vivere dentro una facoltà dove il dibattito era estremamente acceso e mi offriva la possibilità di portare avanti le mie rivendicazioni affrontando nuove esperienze e approfondimenti. Facendo un bilancio sono contenta di aver studiato dentro la facoltà di Architettura e dentro la facoltà di Architettura di Torino, ubicata nel bellissimo Castello del Valentino, immerso nell’omonimo parco. E sono ancor più felice, nonostante lo sforzo occorso, di aver frequentato la Domus Academy e di aver avuto la possibilità di produrre il mio progetto di master con Gaetano Pesce, perché proprio grazie a lui e a quel percorso ebbi modo di approfondire e maturare una mia personale capacità espressiva.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Affatto!! Mio padre avrebbe voluto vedermi medico, anzi pediatra – mestiere che riconosceva più adeguato per una donna – solo perché negli anni del liceo avevo maturato un certo interesse per la psichiatria – erano gli anni in cui Basaglia aveva aperto le porte del manicomio di Trieste – e da lì avevo indicato la facoltà di Medicina come eventuale possibilità. Quando comunicai in famiglia il desiderio di iscrivermi ad Architettura vidi lo sconcerto sul volto di mio padre, anche se non ho vissuto dentro maglie familiari troppo impositive e fui quindi invitata ad approfondire le tematiche affrontate dal piano di studi con un cugino che si era da poco laureato nella stessa disciplina in modo da affrontare la scelta in maniera ponderata.
Quanto è importante per te essere denominata architetta e non genericamente architetto?
Sono perfettamente consapevole di quanto il linguaggio sia estremamente significativo e partecipe dell’evoluzione di una cultura di genere, né per contro sono così interessata ad essere riconosciuta per la mia qualifica professionale, anche se mi rendo conto di quanto la società italiana sia ancora ancorata a schemi quanto meno vetusti, secondo i quali una donna architetto in cantiere viene ancora chiamata “Signora”, appellativo che mai le maestranze si sognerebbero di affibbiare ad un maschio. Da lì al farsi rispettare ce ne passa ancora molto…….
In quali settori operi? L’architettura può essere compresa in molte attività
Da venticinque anni, ahimè, mi occupo prevalentemente di exhibit design che, detto in altri termini, significa la direzione artistica di grandi progetti espositivi che comprende la progettazione dell’allestimento, del light design, degli apparati grafici interni alla mostra e, talvolta, anche delle campagne di promozione della stessa.
Dopo un master alla Domus Academy con Gaetano Pesce in Nuovi Modelli Abitativi, seguito agli anni universitari, nei primi dieci anni della mia attività professionale ho patto parte dello staff del Settore Mostre della Regione Piemonte, di cui sono stata responsabile dell’attività espositiva. La permanenza dentro un’imponente struttura pubblica mi ha permesso di maturare una buona capacità di coordinare lavori e risorse, di strutturare e gestire i budget dedicati alle mostre programmate dall’ente e di lavorare alla veicolazione di eventi presso altri paesi europei. E’ stata una lunga esperienza segnata dal contatto costante con una moltitudine di artisti contemporanei accanto ai quali ho progettato l’allestimento di importanti mostre dedicate alla loro opera. L’incontro con l’arte è stato un rapporto molto “nutriente” e fecondo che ha lasciato impronte, segni fondamentali nella mia progettazione. In quegli anni ho progettato anche gli spazi deputati all’exhibit in Torino e anche in luoghi sparsi nella regione, affrontando le problematiche legate alla museografia.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Nel nostro paese direi che è quasi impossibile fare architettura oggi: il paese ha un patrimonio architettonico immenso, è densamente costruito, con molte brutture che risalgono soprattutto agli anni del boom economico ma che non si abbattono. E dunque le occasioni, le opportunità di esprimersi da parte di un progettista sono purtroppo limitate e alquanto rare. In ogni caso fare architettura per me significa lasciare una chiara traccia del pensiero contemporaneo con una profonda attenzione e riguardo alla qualità dell’abitare, che significa vivibilità, accessibilità, rispetto e attenzione all’impatto ambientale.
Progettare è prima di tutto una mia esigenza di espressione, un bisogno di manifestarmi, di conoscermi, di proteggermi dall’aleatorietà della coscienza altrui. C’è sempre un momento critico e di scoperta in cui, grazie al progetto cui sto attendendo, mi confronto con me stessa attraverso lo scambio con la committenza, e con l’immagine che il cliente si è fatto di te, per poterti affidare il suo progetto, e tu del cliente, per poterlo accettare: questa realtà arricchisce il progetto e chi progetta.
A chi ti ispiri?
Nell’affrontare un progetto mi metto innanzitutto in ascolto di scenari che si manifestano nella mia mente, li approfondisco diventandone testimone silenzioso, ambiguo, che scandaglia le possibili realtà attraverso l’elaborazione dell’immagine e la sua traduzione nella rappresentazione complessiva. Accolgo gli spunti e gli ammiccamenti che mi vengono dall’esterno – camminando per le strade, leggendo e studiando fenomeni, guardando sì….. semplicemente osservando – e da lì prende avvio l’elaborazione dei miei lavori.
Architettura vuol dire bellezza o accessibilità (in tutti i sensi)?
Intanto va chiarito che cosa si intende per bellezza: se per bellezza si intende ciò che è in grado di inquietarci, o ciò che è in grado almeno di creare un sussulto, un fremito dello spirito, allora architettura vuol anche dire bellezza.
La bellezza salva, consola, riempie di significato l’esistenza ma al tempo stesso ferisce profondamente e inquieta. Un ambiente bello predispone l’animo a elevarsi, a esplorare nuovi territori. Di fronte ad una bella architettura possiamo anche piangere, ci commuoviamo, perché la bellezza ci riporta all’enigma della riconciliazione infinita a cui aspiriamo nel profondo del cuore. L’esperienza della bellezza ci proietta verso ciò che è più elevato, verso il regno dei grandi valori, è la forza del trascendente.
Molte donne architetto, ma chi emerge sono quasi sempre gli uomini (tranne rari esempi). Come lo giustifichi?
Ho sempre diffidato della disinvoltura con cui gli individui, e per lo più gli uomini, si impossessano di posti di primo piano nella società, perché il desiderio di essere al di sopra degli altri diventa una richiesta degli altri di avere un primo.
Gli uomini e le donne hanno due modi di stare al mondo: l’uomo è più orientato alla conquista, dove tutto diventa una guerra; per la donna conciliare la propria spiritualità con la tensione ad affrontare la vita più tipica del maschile non è semplice e spesso conduce a profonda crisi. Queste considerazioni non riguardano solo l’architettura ma l’aspettativa che le donne e gli uomini maturano rispetto la loro esistenza professionale e il rimando che arriva a loro dalla società.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto? E perché?
Affermarsi professionalmente è molto più difficile per le donne, non solo per le donne architetto. Storicamente le donne hanno difficilmente potuto occupare posizioni di grande rilievo socio-politico, basti pensare alla Presidenza della Repubblica di cui mai è stata nel nostro paese (e non solo) investita una donna, o alle cariche più alte dentro le diverse professioni. E ciò accade ancora nonostante l’indagine che risale ormai al ’90 del Cerved Group dimostri, a suon di dati, come le donne ai vertici delle imprese siano una presenza positiva. Fanno fatica a entrarci, ma quando ci sono migliorano i risultati.
Il dibattito femminista, cui ho partecipato fin dagli anni universitari, ha elaborato una nutrita letteratura in tal senso, distinguendo tra indipendenza e autonomia, liberazione e separazione, questioni molto complesse che meriterebbero un’approfondita analisi.
Direi comunque che una donna è meno incline al compromesso e la complessità della personalità femminile rende molto più difficile per una donna lo stare al mondo. Credo anche che una donna sia più “in ascolto” e quindi più propensa a coltivare la propria intimità; questa tensione conduce inevitabilmente ad una maggiore implosione rispetto al mondo maschile. Ma, detto ciò, non me la sento di generalizzare, perché esistono donne molto radicate nel tessuto sociale dentro panni e modalità tipiche dell’attitudine maschile e viceversa.
Qual è il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Non ho un progetto che mi è rimasto nel cuore più di altri. Ogni mio lavoro rappresenta la penetrazione dentro un mondo che di volta in volta è sempre sconosciuto, ignoto e costituisce l’inizio di una nuova avventura, che lascia tracce, solchi profondi dentro la mia anima e alimenta la mia conoscenza.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Sono un’accanita fan dei social che fino a sei o sette anni fa snobbavo!!
Li ritengo un ottimo e rapido veicolo di conoscenza che consente prossimità a tematiche che talvolta rappresentano una vera e propria novità rispetto alla mia curiosità onnivora.
Sono per me ottimi spunti per operare poi gli approfondimenti del caso.
Nella mia attività progettuale utilizzo inevitabilmente la tecnologia attraverso le mie collaboratrici ma il processo che porta al progetto è fatto di studio, ricerca, cui seguono pensieri che dapprima si manifestano grossolanamente nella mia mente e poi vengono trasferiti sulla carta attraverso appunti, schizzi, annotazioni e citazioni varie. Fogli e penna, carta e forbici continuano ad essere per me fondamentali.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Attualmente il mio lavoro è così organizzato: mi occupo in prima persona del cosiddetto new business e, una volta ottenuto un incarico sviluppo il progetto generalmente con la collaborazione di una o due architette e una grafica che mi affiancano negli ultimi due anni. In passato lo studio era popolato da un elevato numero di collaboratrici che lavoravano con regolari contratti di lunga gettata: il mio sogno allora era legato alla crescita di una squadra, un team “al femminile” che potesse maturare ampie autonomie sia progettuali che gestionali. Negli ultimi anni sono stata costretta ad abbandonare a malincuore questo ambizioso obiettivo e, con molta più fatica e tanta solitudine, mi ritrovo a “servirmi” della professionalità di collaboratrici ormai abituali che svolgendo a loro volta la libera professione operano con me – come con altri – su commessa.
In ogni caso prediligo le collaborazioni con donne con cui sento maggiori affinità, pur trovandomi poi a lavorare in team con una moltitudine di professionalità maschili nel corso della preparazione di una mostra.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Il mio consiglio, oggi più che mai, è quello di perseguire il proprio sogno, abbracciando il percorso di studi che risponde più puntualmente alle proprie propensioni nella soddisfazione delle velleità individuali.
Aggiungo un piccolo suggerimento, ovvero cercare di individuare dentro il territorio legato ai propri interessi di studio gli interstizi e le nicchie non ancora esplorate o inflazionate perché più è alto il livello di specializzazione e, diciamo così, specificità professionale, più aumentano le possibilità di impiego.
Sottolineo e aggiungo l’importanza del conoscere, studiare, approfondire, essere curiosi senza farsi imbrigliare dai confini del proprio paese di appartenenza.
Lo spirito attuale ha subito un grande cambiamento preferendo l’esperienza e il vissuto immediato, piuttosto che la conoscenza e la sagacia. E sono profondamente convinta che questo atteggiamento porti inevitabilmente alla decadenza culturale in tutte le sue espressioni. Come ci trasmette Guido Ceronetti nel suo Il silenzio del corpo, l’uomo paga un prezzo molto alto quando, senza rendersene conto, affronta gli avvenimenti della vita senza la conoscenza.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
Sento molta vicinanza ai progetti di Carlo Scarpa e Franco Albini connotati da una quasi maniacale cura per il dettaglio. Sono contemporaneamente molto legata al lavoro di Luis Barragan, l’architetto messicano che ha ammantato le sue architetture di colore: la persistenza della luce e del colore come elemento fondante delle sue architetture mi è assolutamente familiare. Ciascuno dei miei progetti fa appello a questi due elementi che ne qualificano la ragion d’essere.
Rispetto al design amo la lampada Switch oro, un piccolo gioiello disegnato dal giapponese Nendo per Oluce
Dove preferisci o preferiresti abitare?
Mi sento un’apolide non particolarmente ancorata a un luogo. Un tempo avevo eletto le Cinque Terre a mia patria d’elezione e proprio a Corniglia, la più impervia e selvatica delle cinque, ho avuto una casa per più di dieci anni. Ma non essendo una persona dipendente – è ormai conclamato!! – non ho sofferto l’abbandono di quel territorio e quando ci sono ritornata l’ho vissuto con piacere ma con altrettanto distacco. Ora come ora vorrei vivere in quel luogo che mi offra l’opportunità di esprimere la mia creatività a tutto tondo, riconoscendone il giusto valore anche dal punto di vista economico. La dimensione per così dire “affettuosa” di certi luoghi mi affascina molto e mi fa sentire a casa – un esempio su tutti, Venezia, città in cui ho sempre anelato trascorrere un periodo lungo della mia vita lavorativa senza riuscire nel mio intento – ma sono convinta che il lavoro sia centrale per il mio essere a mio agio in un luogo.
Non sei sposata e non hai figli, ma Il tuo lavoro impegnativo permetterebbe di avere e soddisfare le esigenze di una famiglia?
In verità è un problema che non mi sono mai posta essendo io una single, che ha sempre riconosciuto la vita professionale come la propria vita.
Per giunta la famiglia come istituto non è mai stata contemplata come possibilità legata alla mia esistenza, semmai è stata criticata e combattuta in quanto istituzione reazionaria e funzionale al sistema.
Il tuo difetto maggiore? E il tuo pregio?
Il mio principale difetto – la scarsa diplomazia – penso sia anche il mio pregio, perché mi rende una persona sempre sincera e franca.
Di cosa ti stai occupando ultimamente e quali sono stati i tuoi ultimi lavori?
Da più di un anno, da quando cioè ho riunito la mia abitazione al luogo del mio lavoro, amo chiamare quest’ultimo atelier, perché è quello il luogo della mia riflessione, progettazione e non ultimo, sperimentazione. Questo per dire che la mia quotidianità è costantemente impegnata nel portare avanti sia l’attività più squisitamente professionale che mi vedrà a breve impegnata nella riprogettazione di un museo e nella direzione artistica di una mostra – una avvincente penetrazione dentro nuovi territori della scienza – e la mia ricerca artistica che significa in questo periodo l’approfondimento di una collezione di arte applicata intorno al tema delle mappe. Mappe che, come sostiene Brian Harley, lo storico della cartografia più influente degli ultimi anni, “sono rappresentazioni grafiche che facilitano una comprensione spaziale di cose, concetti, condizioni, processi o eventi nel mondo umano”. La mappa se da un lato, disciplina, delimita, economizza e regola lo spazio, dall’altra ne crea uno nuovo, generando mondi di senso e visioni.
Nel cassetto ho anche un paio di idee per progetti site specific di grandi dimensioni, progetti in cui le due mentalità – quella dell’architetto e quella dell’artista – vivono intrecciate dentro un’unica espressione, l’assemblage.
Vorrei riuscire a dedicarmi con costanza allo sviluppo di queste idee ancora embrionali, sapendo che solo attraverso la dedizione assoluta riuscirò ad arrivare ad un risultato soddisfacente.
Nell’ultimo periodo sono invece stata completamente assorbita dal compimento del progetto di allestimento della mostra Homo Sapiens, che ha inaugurato al Mudec, il nuovo Museo delle Culture di Milano: un grande progetto narrativo che esplora la storia dell’uomo attraverso una rete di percorsi espressivi in grado di sollecitare il pubblico mediante una lettura incrociata e ravvicinata. Più di duecento reperti per raccontare la storia della diversità umana. Una sequenza di installazioni per far vivere al pubblico uno spettacolo tra storia, scienza e architettura. E l’occasione di una duplice esperienza: quella della tensione di una domanda, ma anche l’invito alla meditazione e al silenzio.