Lavoro, salute, work-life balance, discriminazioni e disuguaglianze sono i fronti del gender gap su cui concentrare le nostre azioni. Perché è molto facile retrocedere, mentre è più difficile ottenere benefici durevoli e diffusi, che creino benessere per le donne.
Perché arretriamo anziché guadagnare posizioni nel report annuale “World Economic Forum Gender Gap Report 2016” (Wef)?
L’indice mondiale misura la disparità di genere attraverso le seguenti categorie: Economic Participation and Opportunity, Educational Attainment, Health and Survival and Political Empowerment. Quest’anno abbiamo perso 9 posizioni.
Guardando all’indice complessivo, in Italia le donne sono più svantaggiate rispetto agli uomini, tanto che il ‘gender gap’ (le differenti opportunità, gli status e le attitudini uomini-donne) quest’anno ci vede scendere dal 41° al 50° posto, anche se fino a dieci anni fa occupavamo il 77° posto.
L’Italia è penalizzata in termini di partecipazione e opportunità economica per le donne nel mondo del lavoro. Infatti la differenza tra i due sessi quest’anno ci vede al 117° posto.
In termini di pay-gap, siamo al 127° posto della classifica generale. Non siamo le sole certo ad avere questo problema.
Prendiamo il caso delle donne islandesi, che pur vivendo in un Paese primo in classifica, qualche giorno fa sono uscite dal lavoro alle 14.38 per protestare contro le differenze salariali tra uomini e donne. La disuguaglianza salariale significa che le donne in tutta Europa lavorano in parte gratis.
La parità a livello globale arriverà, se tutto va bene, solo tra 170 anni.
Per quanto riguarda il numero di donne che lavorano fuori casa il divario è cresciuto passando dal 60% nel 2015 al 57% nel 2016. Su 144 Paesi, siamo classificati all’89° posto per partecipazione al mondo del lavoro.
L’Italia, a passo di bradipo, sta migliorando su tre dei quattro pilastri su cui si basa l’indagine: educazione, salute e rappresentanza politica.
Tra le ragioni del declino nella classifica mondiale c’è lo stipendio: nonostante, sempre in media, lavorino più ore.
Qui una interessante presentazione sul tema del pay gap, a cura della Commissione europea.
Il numero di donne in posizioni di alto livello resta molto basso: nella classifica siamo al 79° posto per numero di donne tra i legislatori, gli alti funzionari e i manager.
Il divario economico nel mondo potrebbe essere superato in 118 anni (l’Italia se continua così dovrà attenderne 52 in più), mentre quello educativo si è notevolmente ridotto negli ultimi anni. Le aspettative di vita non sono peggiorate, l’Italia è al 72° posto.
Uno dei pilastri su cui si basa il ‘gender gap’ è il potere politico: solo il 23%, è impegnato, l’1% in più rispetto all’anno scorso e il 10% rispetto a dieci anni fa.
Tornando al discorso della partecipazione al lavoro, in questi ultimi giorni se ne parla molto in riferimento all’indagine “A Milano il lavoro è donna“, un rapporto che fa parte di un progetto del Ministero del lavoro in ambito europeo e vuole essere uno strumento per indirizzare le scelte politiche future.
Le milanesi tra i 20 e i 64 anni sono più attive (sette su 10) e occupate (il 68,3 per cento) della media italiana e persino di quella dei Paesi europei più sviluppati. La percentuale di disoccupate a Milano è del 5,5 % (il tasso di inattività si attesta invece al 26,2 per cento) contro il 7,4 nei 15 Stati membri di ‘fascia più alta’ e del 13,5 % della media italiana.
Sembrerebbe fin qui tutto bene, un risultato straordinario. Ma siccome i dati vanno letti sempre allargando la visione, scopriamo che Milano non è assolutamente amica delle mamme che lavorano.
Siamo più istruite, più qualificate e capaci di accedere a professioni un tempo appannaggio dei soli uomini. Eppure, tutto questo sembra avere un prezzo, costringe come sappiamo a compiere delle scelte, a stabilire priorità, a rinviare o a cancellare ipotesi di maternità.
Secondo la ricerca, il 36% della forza lavoro femminile è costituita dalle cosiddette ‘professionals’ (composto prevalentemente da giovani-adulte, per la quasi totalità da italiane e da dipendenti) e solo la metà di loro ha figli. Con un quarto delle milanesi over 30 anni che è single. Questo non è assolutamente un problema, lo diventa se non è il frutto di una scelta o una casualità, ma dipende dal tempo di lavoro che fagocita anche le relazioni e la vita privata.
La condizione di “madre lavoratrice” con uno o più figli conviventi riguarda una minoranza (48%) del totale delle occupate.
L’amministrazione comunale vuole puntare sulla formazione e sulle politiche di lavoro agile, ma occorre a questo punto fare in fretta.
Due terzi delle milanesi lavorano (il 64,4 % delle milanesi tra i 15 e i 64 anni, il 68,3 % se si parte dai 20 anni) e consentono al capoluogo lombardo di non essere da meno con le altre città europee (da Parigi con il 69,9 % a Berlino con il 67,7 e Londra con il 60,4).
Le professionals sono quasi tutte laureate, impiegate in attività di alto profilo con una quota di dirigenti ancora ferma al 4 %.
Il gruppo delle diplomate è il più corposo, sono il 46,6 % del totale. Poi ci sono le ‘unskilled’: il 17,4 % delle lavoratrici, di cui il 40 % arriva da altri Paesi.
Il tasso di occupazione tra i 33 e i 44 anni, arriva all’87,6 % per le donne italiane che non hanno figli e scende al 75,9 per chi ha partorito. Differenza ancora più forte tra le straniere.
La sociologa Lorenza Zanuso: “Nonostante una dotazione di servizi per l’infanzia pubblici e privati più ampia rispetto alla media italiana, Milano non è una città children friendly”.
Forse pesa il costo di questi servizi, il fatto che quelli pubblici spesso siano accessibili solo a pochi, che alla fin fine le donne restano la principale fonte di cura e di assistenza familiare, invisibile perché gratuita. Centrale quindi è un supporto certo per questi compiti di cura, che devono essere il più possibile condivisi con gli uomini.
Mi suona strano che tra le donne inattive: “solo il 9% dichiara che non ha cercato lavoro per l’inadeguatezza o il costo dei servizi di cura dei bambini e delle persone autosufficienti”. A pagina 32 dell’indagine si parla di un miglioramento dei servizi di cura nel corso degli ultimi anni, ma il problema resta. Pur in presenza di una buona dotazione di servizi, come abbiamo visto, la città resta poco children friendly.
Chi vive a Milano sa bene cosa significa dover usufruire di questi servizi, tra nidi, baby-sitter e badanti. Conoscete il costo orario di un caregiver retribuito regolarmente? Oppure vogliamo assecondare il lavoro nero dei caregivers? Inoltre, a Milano ci sono tante donne originarie di altre città, regioni o Paesi: questo comporta spesso la mancanza di sostegni e di reti familiari coadiuvanti per i compiti di cura.
Gli investimenti nell’economia della cura producono ricadute positive. Si stima (Wef) che se si investisse il 2% del Pil si ottererrebbe una crescita di 1 milione di posti di lavoro.
I costi eccessivi in termini di servizi sono ancora più onerosi se si guardano le differenze salariali evidenziate dal report del Wef.
La crescita del part time negli ultimi anni da un lato può essere un tentativo di riuscire ad avere un buon work-life balance, ma spesso rischia di essere una scelta imposta, con impatti sul lungo periodo (pensione). A volte possono nascondere anche lavoro sommerso, con porzioni della giornata lavorativa in nero. In fondo anche gli straordinari non retribuiti sono ore di lavoro che non figurano, regalate al datore di lavoro.
Allo stesso tempo è necessaria una cooperazione pubblico-privato per superare le differenze e le discriminazioni per genere. Magari iniziando con il potenziamento delle reti territoriali per la conciliazione e un investimento nel welfare aziendale (in merito a: assistenza agli anziani, servizi per l’infanzia, conciliazione vita lavoro, assistenza sanitaria integrativa), che non significa rinunciare alle garanzie del welfare pubblico universale.
A tale riguardo dal Sole24ore apprendiamo che:
“la Legge di Stabilità 2016 ha dato un nuovo impulso al settore introducendo importanti novità sul welfare aziendale, con l’obiettivo di incentivare le imprese a intraprendere iniziative di questo genere. Il tema regolato dagli artt. 51 e 100 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi è stato quindi rinnovato e “svecchiato” dalla nuova Legge con l’obiettivo di intercettare i nuovi “bisogni sociali” emergenti ed aggiornare quindi la normativa di conseguenza. A tal fine la Legge ha potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi e prestazioni di welfare aziendale ai dipendenti (asili nido, buoni pasto, assistenza sanitaria integrativa…); permette l’erogazione di premi di risultato in forma di servizi di welfare; introduce nuovi strumenti già sperimentati in altri paesi europei come il voucher dei servizi. Anche nella legge di Bilancio 2017 un capitolo rilevante è rappresentato dalla produttività del lavoro e dal welfare aziendale con misure atte a sviluppare queste aree. È previsto infatti il rilancio delle agevolazioni sulle retribuzioni corrisposte per i premi di risultato ai lavoratori.”
Resta da capire l’impatto della precarietà, le difficoltà di fare progetti a medio termine, la carenza di servizi accessibili di supporto, gli stipendi più bassi nelle vite e nelle scelte delle donne. Perché purtroppo questi strumenti di sostegno non sono ancora comuni e accessibili a tutti/e. C’è una sorta di euforia che si scatena guardando le percentuali di donne occupate a Milano, che non ci deve far perdere di vista l’intero Paese e le storie che stanno dietro quei 2/3 di donne occupate. Forse dovremmo misurare la qualità della vita e il benessere di queste donne. Chiederci se stanno bene e se in qualche modo le loro scelte sono state forzate e condizionate al di là della loro volontà autentica.
Così come non ci dobbiamo dimenticare la quota di donne migranti.
Ci troviamo di fronte a un cambiamento notevole della popolazione femminile, famiglie mononucleari, monogenitoriali femminili, con servizi che spesso non rispondono a questa metamorfosi e fluidità della società. Trasformazioni che non prevedono l’opzione “condivisione” e che necessitano di un approccio che consenta alla singola donna di trovare il giusto equilibrio e le soluzioni più idonee. Non esistono soluzioni ‘one size fits all’. Le risorse vanno adoperate in modo mirato e intelligente, non disperse a pioggia, per far contenta una parte. Sarà un metodo vincente in termini elettorali, ma non è un approccio lungimirante, che può apportare benefici durevoli ed equi.
Le donne oggi studiano di più, più a lungo, anche in materie considerate di pertinenza “maschile” fino a pochi anni fa, sono flessibili contorsioniste del multitasking, sono attive socialmente, sono più presenti nella politica e nelle istituzioni, ma il muro è sempre lì, entrare e rimanere nel mondo del lavoro, senza dover perdere pezzi di sé. Anche questa è una forma di violenza.
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