Agguerrite, impavide, temerarie. Nessun rimpianto per aver anteposto la viscerale avversione nei confronti dello Stato Islamico alla tranquillità di una quotidianità ordinaria nel contesto iraniano originario.
Del resto sono abituate a combattere: appartengono all’ala armata del Kurdistan Freedom Party (Pak), entità politica fondata nel 1991 a tutela dei diritti curdi il cui obiettivo primario resta l’istituzione di una nazione indipendente estesa a Iran, Iraq, Turchia e Siria.
Un nucleo di circa 400 uomini e 200 donne (noto in termini di Kurdistan Freeedom Eagles for East Kurdistan, o Hak-R) che hanno scelto di affrontare i jihadisti stanziati nel governatorato iracheno di Niniwa al fianco dell’esercito di Baghad e dei peshmerga, coadiuvati dalla Combined Joint Task Force capitanata da Washington: mossa che memore dei sei attacchi subiti ultimamente dai pasdaran, Teheran avrebbe cercato di sventare confidando vanamente nella collaborazione del governo autonomo della regione
“Qui o altrove il Kurdistan resta il nostro territorio “, ha puntualizzato la 21enne Mani Nasrallahpour imbracciando con noncuranza un fucile d’assalto Ak-47. “Siamo fermamente intenzionate a scongiurarne l’occupazione da parte del Daesh o di chiunque altro. Vogliamo catturare il maggior numero possibile di tagliagole per poi ucciderli, Non avemo pietà di chi ha compiuto orrori indicibili. E per evitare che qualcuna di noi cada in mani nemiche abbiamo stipulato un patto preciso di salvaguardia reciproca. Comunque conserviamo sempre una pallottola di riserva: preferiamo spararci piuttosto che essere condannate alla prigionia”.
“Partecipando attivamente a questa guerra”, ha aggiunto, “stiamo dimostrando di non essere inferiori ai nostri compagni. Perciò crediamo che la nostra sia anche una lotta emancipatoria “. Versione avvalorata dal 27enne comandante Hajir Bahamni: “Siamo assolutamnte fieri di loro e l’uguaglianza è pressoché totale“.
D’altronde sono proprio le guerrigliere, spesso in prima linea, a incidere maggiormente sui famigerati avversari (la liberazione del villaggio di Fadiliya è emblematica in tal senso), accesi fautori della misoginia e pertanto incapaci di tollerare la presenza femminile al fronte.
Non a caso paiono costituire il bersaglio privilegiato delle unità califfali. “Hanno paura delle donne“, ha precisato la 32enne Avin Vaysi, impegnata – una pesante mitragliatrice in mano – nei feroci scontri in atto. “E’ vero che sono pericolosi, ma noi non ne siamo affatto intimidite” (i canti provocatoriamente intonati nell’imminenza di uno scontro costituiscono una conferma in tal senso: nel Califfato infatti ogni sorta di musica è stata drasticamente bandita). “Acoltando il resoconto televisivo sul trattamento riservato alle suddite (costantemente abusate, torturate, sessulamente schiavizzate, n.d.r.) ho sentito ribollire il sangue. Così ho deciso di partire“.