Parità di genere, libertà di stampa, istituzione di una commissione indipendente volta a garantire il rispetto dei diritti umani: gli emendamenti costituzionali introdotti nel 2010 sembravano preannunciare una svolta progressista da parte del governo keniota. Invece hanno coinciso con l’inizio di interminabili diatribe tuttora irrisolte.
A suscitare maggiori perplessità è stata l’intransigenza del Ministero della Sanità in materia di interruzione volontaria di gravidanza, consentita esclusivamente “a fronte di emergenze terapeutiche inderogabili, rischi evidenti per la salute o la vita della futura madre e qualora siano in vigore altre (non meglio indicate, n.d.r.) leggi scritte“.
Indicazioni racchiuse nelle direttive professionali diramate nel 2012 a beneficio della categoria medica ma repentinamente revocate l’anno successivo su diretta pressione dei credenti. Inevitabile del resto, in una paese dalla profonda identità cristiana.
“I politici non devono incoraggiare i medici a precludere le nascite, perché per noi l’embrione è un essere vivente“, ha tuonato padre Raphael Wanjohi responsabile della sezione locale di Human Life International, organizzazione antiabortista statunitense. “Nessuno ha la facoltà di porre arbitrariamente fine a un’esistenza. La vita umana è sacra, dal concepimento alla morte per cause naturali. Non esistono deroghe in tal senso: l’aborto va impedito“.
Da allora molti responsabili ospedalieri hanno cominciato a esortare il personale a disertare i corsi sulle corrette procedure abortive. “La legge non accenna ai problemi psicologi o mentali di cui alcune donne possono soffrire e delega ai ginecologi ogni decisione in merito, ma molti sono riluttanti perché temono di incorrere in complicazioni legali“, ha osservato Josephine Mongare, alla guida del Kenya’s Federation of Women Lawyers, gruppo promotore di una petizione finalizzata a focalizzare l’attenzione dei ministri e del Procuratore Generale sulle conseguenze nefaste delle pratiche abusive. “Quindi la gente (36 donne su mille, n.d.r.) preferisce rivolgersi istituzioni secondarie in pessime condizioni igieniche e impossibili da censire. Ne consegue un alto tasso di mortalità. Noi invece riteniamo che chi non desidera avere figli debba poter accedere senza paura a strutture adeguate e sicure“.
In base alle rilevazioni effettuate dalla Kenya Medical Association (l’ultima delle quali risalente però a quattro anni fa) sarebbero annualmente almeno 465mila le donne inclini ad abortire. Ma nelle cliniche specializzate i costi di intervento sono spesso proibitivi rispetto agli ambulatori improvvisati, presso i quali un terzo dell’importo ufficiale (circa 20mila scellini kenioti, pari a 200 dollari) è spesso più che sufficiente per risolvere il problema.
Tra il 2011 e il 2015 sarebbero stati effettuati 177 arresti “per procurato aborto” (accusa estesa idiscriminatamente a operatori abusivi e relative pazienti occasionali) che tuttavia non hanno contribuito ad arginare il fenomeno. ” Mio marito mi aveva abbandonata e io non sapevo come avrei fatto a mantenere i nostri due bambini di uno e quattro anni. Così mi sono venduta in cambio di cibo“, ha raccontato la 35enne Phyllis, residente in una delle aree più degradate di Nairobi. “Quando mi sono accorta di essere rimasta incinta ho taciuto perché non volevo perdere l’uomo che mi stava aiutando pur avendo una famiglia. Ma intanto il tempo passava ed ero ormai al quinto mese di gestazione. Allora mi sono rivolta a una persona che conoscevo e sono stata operata subito, senza anestesia. Ricordo di aver perduto tanto sangue, ma non ha mai creduto di poter morire. In questo quartiere di 1oomila abitanti ci sono 50 luoghi tra cui scegliere. Adesso so che avrei potuto usare dei contraccettivi, ma all’epoca credevo che i metodi di pianificazione familiare comportassero frigidità e allontanassero i pretendenti. Comunque ciò che ho vissuto mi ha fortificato. Sono una persona diversa, convinta che la sofferenza debba essere evitata. Sogno una società in cui le donne possano finalmente esprimersi ed essere ascoltate“.
Sarebbero sostanzialmnete ignoranza e povertà a indurre le potenziali madri a prediligere la candestinità. “E’ diventata una lotta di classe: laddove l’aborto è illegale, i ricchi tendono a varcare i confini nazionali alla ricerca di soluzioni ottimali, mentre i poveri non hanno alternative “, ha precisato il professor Boaz Otieno-Nyunya, membro del Kma Reproductive Health Committee. “L’estrazione del feto avviene con strumenti quali cucchiai, coltelli, aghi o grucce, previa assuzione di sostanze a base di erbe medicinali“.
La controversa e delicata questione abortiva verrà in ogni caso riesaminta dalla Corte Suprema il 15 dicembre prossimo. “La carta costituzionale è schematica e per definizione stessa non ha valore legale. Spetta ai parlamentari interpretare correttamente il principio che sancisce il diritto all’esistenza. Quello inerente l’individualità è un concetto presunto da cui si evince che l’interruzione di gravidanza è una condanna a carico di taluni e non di altri, applicabile solo in presenza di una sintomatologia clinica preoccupante da parte della madre“, ha ribadito Joy Mdivo, responsabile esecutiva dell’associazione onlus East Afican Centre for Law and Justice. “Sarebbe dunque auspicabile incentivare le adozioni e individuare opzioni attendibili per scongiurare aborti ispirati dalla disperazione”.