Ieri 26-11-2016 un bel corteo ha attraversato Roma, determinato e molto partecipato. Tantissime donne e uomini di tutte le età hanno sfilato da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni contro la violenza di genere.
Fotoreportage di Andrea Zennaro
Ieri un bel corteo ha attraversato Roma, determinato e molto partecipato. Tantissime donne e uomini di tutte le età hanno sfilato da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni contro la violenza di genere. Il Messaggero parla di 200.000 persone (quindi molto probabilmente erano di più), scese in piazza per dire basta non solo a stupri e femminicidi (solo il 2016 ne ha contati ben 116), ma a tutte le ingerenze che condizionano le donne nella gestione del corpo e nella loro libertà di scelta.
Erano presenti associazioni femministe e omotransessuali e semplici cittadine e cittadini a difendere i diritti fondamentali delle donne anche al di là della violenza fisica. Primo fra tutti quello di abortire, ostacolato dalla pratica dell’obiezione di coscienza, sempre più diffusa tra i medici: la maternità deve essere una scelta consapevole e non un obbligo, eppure molti medici negli ospedali pubblici rifiutano di interrompere una gravidanza, qualcuno per convinzioni etiche ma molti altri per guadagnare di più sapendo che le pazienti ricorreranno a cliniche private. Era presente nel corteo il padre della giovane lasciata morire di recente in un ospedale di Catania per mancanza di cure in quanto il suo utero era danneggiato da due feti impossibilitati a sopravvivere ma tecnicamente ancora vivi: tutti i medici dell’ospedale erano obiettori e uno di questi ha avuto il coraggio di sostenere che agire diversamente sarebbe stato “infanticidio”.
Tante anche le bandiere curde presenti nel corteo, quelle verdi delle YPG, le Unità di Difesa del Popolo, e quelle gialle delle YPJ, le Unità di Difesa delle Donne, queste ultime costituite da gruppi militari di sole donne che devono difendersi non solo dagli attacchi militari, ma anche da tutte le forme di violenza di genere che stanno subendo da parte di tutti e quattro gli Stati che occupano il Kurdistan. La dignità delle donne e la loro autodeterminazione sono tra i temi principali portati avanti dalla Rivoluzione politica e culturale che in questi ultimi anni ha visto la luce in Rojava (il Kurdistan siriano) con il nome di Confederalismo democratico e già da molto prima il PKK si era presentato come l’unico (o quasi) soggetto politico mediorientale a combattere il maschilismo: capitalismo, patriarcato e razzismo sono tutte facce di una stessa medaglia. Non a caso l’esperimento di autonomia del Rojava è ferocemente osteggiato tanto dai deliranti omini neri sciiti del Daesh (il cosiddetto ISIS) quanto dal governo della Turchia, che sta trasformando il Paese da Repubblica laica a Stato autoritario sunnita: dare diritti e libertà alle donne minerebbe alla base il mondo di ingiustizia e sopraffazione che entrambi intendono costruire. Per questo tante e tanti nel corteo scandivano spesso lo slogan JIN JIYAN AZADIYA (Donna Vita Libertà).
Molte sottolineavano la questione culturale che vede una donna solo come o casalinga o “pocodibuono”, o moglie fedele o “troia”, addirittura “zoccola” se ha la gonna troppo corta o “suora” se la porta troppo lunga: del resto, fatta eccezione per il Neolitico, tutta la Storia ha visto le donne sottomesse alla mentalità maschilista, si pensi a espressioni come “il sesso debole” o simili.
Troppo spesso si usano ancora aggettivi possessivi per indicare la propria compagna: la violenza di genere è una conseguenza (indiretta ma neanche troppo) di questa mentalità, che non è affatto frutto dell’immigrazione ma è assai radicata nella società italiana ed europea. Qualcuna avrebbe voluto allontanare le presenze maschili dalla manifestazione di oggi, e invece l’educazione sentimentale dei maschi è fondamentale. Confondere maschio e maschilista, uomo e stupratore, è pericoloso e fuorviante.
Educhiamo gli uomini
Interventi e striscioni parlavano alle donne che purtroppo hanno ancora bisogno di difendersi, ma soprattutto agli uomini che devono ancora imparare ad amare anziché possedere, a condividere anziché comandare, a stare insieme con rispetto ma anche ad accettare un rifiuto.
Perché uomo è chi ama e rispetta le donne, chi le pretende e arriva a picchiarle è una bestia, senza con ciò voler offendere le altre specie animali.
Mi si perdonerà se ho dimenticato qualche elemento non del tutto irrilevante.
Andrea, maschio, classe 1992, socio di Toponomastica femminile
Insegniamogli ad amare