Forse non riusciranno mai a dimenticare la tragica esperienza vissuta. I soprusi e gli orrori subiti passivamente, il senso di precarietà esistenziale ispirato da una condizione di cattività passibile di culminare in un’esecuzione capitale.
Per i sopravvissuti all’inferno islamista nelle località appena redente dall’esercito di Baghdad non sarà semplice ricominciare a vivere: l’avvenuta percezione del lato più oscuro e recondito della natura umana rischia infatti di offuscare per sempre ogni tremulo barlume di speranza in un futuro promettente.
”Dopo quattro ore di tortura, mio cognato è stato crocifisso e squartato davanti ai familiari“, ha raccontato Esam, un iracheno di mezza età ancora in preda al terrore. Il 16enne Ismail invece ricorda ancora con sgomento l’invasione radicalista di Qaraqosh, il villaggio cristiano in prossimità di Mosul da cui proviene: “Ci avrebbero ucciso se non ci fossimo convertiti all’Islam. Per dimostare che non stavano scherzando ci hanno costretto ad assistere all’uccisione di cinque uomini vestiti di rosso da parte di alcuni bambini armati (i cosiddetti cuccioli del Califfato, addestrati sin dall’infanzia al combattimento in nome di Allah, n.d.r.)”.
Resta il fatto che a distanza di due anni dalla loro affermazione sulla scena globale, le truppe fondamentaliste si ritrovano costrette a retrocedere da parecchie aree in precedenza egemonizzate. E il merito va attribuito sprattutto alle ex prigioniere (prevalentemente di etnìa yazida) che in un passato non lontano hanno personalmente sperimentato la brutalità insita nella quotidianità all’ombra del famigerato stendardo nero.
Ovvero le più penalizzate dall’ideologia efferata e misogina promulgata dal sedicente principe dei credenti Abu Bakr al-Baghdadi. Coloro che discriminate, maltrattate, abusate, sfruttate, emarginate e spesso schiavizzate hanno ora deciso di affiancare le guerrigliere curdo-irachene nella lotta agli antichi aguzzini.
“Il movimento di liberazione del Kurdistan ha sempre incoraggiato la popolazione femminile all’autodifesa a qualsiasi livello e non è escluso che possa aver influito anche sul grado di consapevolezza raggiunto da queste donne“, ha osservato la reporter Meredith Tax dalle pagine del New York Times. “I successi conseguiti dalle miliziane – ritenute un esempio da seguire – rimandano alla crucialità di una leadership femminile in ogni ambito della società.
Nel sistema democratico autonomo del Rojava (enclave curdo-siriana al confine con la Turchia, n.d.r.) la partecipazione delle cittadine alla vita politica è ampiamente contemplata, tanto che ogni struttura istituzionale è immancabilmente retta da esponenti di entrambi i sessi. I comitati rosa vantano enorme autorevolezza specialmente in materia di matrimoni coatti e violenza domestica“.
Esiste tuttavia un aspetto essenzialmente simbolico alla genesi dell’ingerenza bellica dell’altra metà del cielo. Una sconfitta inflitta per mano femminile contribuisce infatti a sfatare il mito della supremazia maschile predicato in seno allo Stato Islamico. Le soldatesse stanno insomma dimostrando di non essere né fisicamente né tantomeno psicologicamente diverse dagli uomini.
“A lungo termine l’immagine delle donne che catturano e uccidono gli integralisti inficerà le convinzioni califfali, basate sulla falsa premessa della disparità di genere“, ha ribadito Fatima Sadiqi, collaboratrice del sito online Project Syndicate. In tal caso, il tramonto del Daesh potrebbe davvero assumere una valenza ancor più incisiva.