L’anno vecchio è finito ormai, la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione, ma niente sembra veramente essere cambiato, anche in quest’alba del 2017.
“L’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va!……..ma la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione, e tutti quanti stiamo già aspettando”, cantava Lucio Dalla nel 1979 ma niente sembra veramente essere cambiato, anche in quest’alba del 2017.
Ed a noi, poveri utenti paganti del canone televisivo, che attendiamo speranzosi qualche cambiamento culturale, la televisione ci destina uno dei peggiori messaggi della sua storia: feti che cantano.
Peccato. Perché essa, che ai suoi albori è stata un grande ed utile strumento di alfabetizzazione nell’ Italia del secondo dopoguerra, ci ha accompagnato nelle diverse fasi della storia italiana. Ci è stata compagna dagli anni 50/60 ed ha rappresentato il simbolo più significativo del grande boom economico; nei successivi anni ’70, raccontandoci del terrorismo e stragismo di Stato; ancora negli 80, testimone di un il secondo boom economico portatore di benessere ed ottimismo fino ai ‘90, caratterizzati dalla lotta alla mafia e alla corruzione. Infine accompagnandoci nell’ingresso nel nuovo Millennio, un 2000 carico di promesse e portatore di innovazioni informatiche di cui ancora non è possibile farne il bilancio.
Di questi passaggi la televisione è stata protagonista ed interprete.
Con i suoi messaggi e la sua informazione, è entrata nelle case e nelle famiglie di tutti gli italiani, testimone di quanto accadeva nel mondo consentendoci di avere una finestra aperta oltre le proprie mura.
Attraverso questa informazione capillare, essa è stata in grado di portare fin dentro ai nostri comodi salotti testimonianze di fatti e misfatti, andamenti economici, crimini orrendi, genocidi, una denuncia su molti fenomeni altrimenti sconosciuti come quelli ambientali. Infine le grandi questioni dell’emigrazione, dell’integrazione, della globalizzazione.
Attraverso reportage coraggiosi, ottimi giornalisti, inviati, ha reso possibile una maggiore sensibilizzazione delle coscienze. Forse suscitando anche un desiderio di partecipazione.
Ciononostante e forse inevitabilmente, una struttura così grande ha presentato alcune falle.
La Rai TV è un servizio pubblico, che lo Stato garantisce direttamente attraverso il controllo parlamentare. Noi, cittadini e fruitori, paghiamo con il canone grande parte di questa gestione. Nel merito delle spese, dei contratti pubblicitari, delle parcelle professionali e quant’ altro non abbiamo strumenti di controllo. Non ci piace ma ci sta. Infine da uno strumento di rappresentanza popolare vorremmo maggiore chiarezza e trasparenza.
Dunque dove vogliamo arrivare? Ai feti che cantano per promuovere uno degli eventi più importanti che, sia ben chiaro, non è la loro nascita ma il Festival della canzone di Sanremo. Una manifestazione che la Tv ci propina ogni anno e, dunque, anche in questo 2017 è arrivato il tormentone Sanremo. Una ricorrenza che ci accompagna dal 1951, come manifestazione musical-popolare a cui la maggior parte del pubblico, di ogni età, si è affezionato. I dati d’ascolto lo evidenziano e la capacità di tenere incollati per giorni, 7/11 Febbraio, deriva dall’unire musica e gossip; canzoni e divi, ospiti internazionali e giovani talenti, presentatori e vallette, moda e red-carpet. Per tenerlo in vita e farlo marciare di pari passo con il contesto generale ogni anno si rinnovano espedienti alternativi e promozioni mediatiche sempre più originali e visibili come nel caso dello spot in questione.
Il cattivo gusto, come quasi tutto del resto, non ha genere. Individuare nello spot “dei feti” un’indignazione femminile sarebbe sciocco e riduttivo. La maternità non riguarda solo le donne; essa è un argomento condiviso nella politica, nella società e nei media. Quello che cambia è il modo in cui essa viene rappresentata e in questo senso le differenze possono essere visibili.
Non ci infastidisce solo che lo spot rappresenti l’anticamera di un ginecologo in cui madri, mica sfatte dalla fatica di portare avanti una gravidanza insieme al lavoro, alla famiglia, ai problemi quotidiani no. Solo donne giovani e belle, serene e sorridenti, con le cuffiette agli orecchi per sentire la musica, di Sanremo ovvio. E, come recenti studi hanno dimostrato, il bimbo nel pancione ascolta. Ascolta e reagisce agli stimoli musicali percependone i suoni che lo fanno “cantare e ballare”, proprio come viene rappresentato nello spot.
Ancora più grossolano il contenuto affidato al nascituro che canta la canzone “Non ho l’età”, di vecchia memoria sanremese. Approfittiamo dunque che non ha l’età per ribellarsi e inculchiamogli questo messaggio, da introiettare e far maturare da grande, quando avrà l’età (di cavarsela nella vita ma accompagnato dalla musica di Sanremo).
Se il feto è strumentale, la gravidanza è assunta come atto sublime in una visione edulcorata e sanremese.
Ma la realtà non è uno spot. Il 2 gennaio a Melegnano una giovane madre ha perso il figlio per mancata assistenza. Avvertiva forti dolori addominali ma all’ospedale l’hanno rimandata indietro. Anche per lei bisognava attendere il colore rosso del sangue (come avviene per tanti omicidi di donne) per intervenire, sempre troppo tardi. Un cesareo ritardato, una morte annunciata e per il feto non c’è stato niente da fare.
Quei dolori erano la musica di quella madre e di quel neonato.
Ecco perché non ci piace, non possiamo condividere che la televisione, a cui noi contribuiamo in così larga misura, utilizzi messaggi sbagliati. Il vero evento della vita, che non si manifesta solo una volta all’anno, che non ha campagne pubblicitarie che lo finanzino, che è quello della procreazione, della maternità e della nascita va promosso con una diversa sensibilità.