Dov’è il dolore, là il suolo è “sacro”. La sacralità del dolore non si esprime forse anche nel diritto ad una fine dignitosa?
Così scriveva Oscar Wilde nel suo De Profundis, anche se in questa specifica circostanza occorre riportare la religiosità del dolore ad una dimensione più intima e reale. La sofferenza, incomprensibile per chi non la vive, dovrebbe essere immune a qualsiasi giudizio, soprattutto quando è volontà dell’essere umano che la patisce porvi fine.
La sacralità del dolore non si esprime forse anche nel diritto ad una fine dignitosa?
Eppure quando si parla di diritto alla vita il nostro paese si divide sempre in due, tra chi ritiene con convinzione di sapere quando essa inizi e quando – o come – debba finire, e chi ritiene che prima vengano la dignità e il principio di autodeterminazione dell’individuo e solo dopo l’opinione personale. Vi sono chiari motivi etici alla base della posizione dei pro-life ad ogni costo, ma resta poco comprensibile come la politica faccia tanta fatica a farsi promotrice di una modernità e di un sano bisogno di civiltà sempre più sentito tra la gente. La scarsa applicazione della legge 194 e il vuoto normativo in materia di testamento biologico ed eutanasia sono la massima espressione dell’inadeguatezza di questa politica.
Un pensiero va all’art. 2 della Convenzione di Oviedo, firmata nel 1997 e recepita nel nostro ordinamento nel 2001: “l’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza”, e tale interesse si manifesta attraverso il consenso informato e libero a trattamenti sanitari sull’individuo, come riferito all’art. 5 della stessa Convenzione. Se la tutela della salute si scontra in sostanza con la manifesta volontà dell’essere umano è quest’ultima a vincere, in nome di una sacrosanta libertà di scegliere. O meglio, così dovrebbe essere. Infatti, viviamo in un folle paradosso: la salute fisica e psicologica di una donna sembra valere meno della coscienza di un ginecologo; la ricerca di una pace interiore e di benessere psicologico in un paziente malato terminale o in un individuo affetto da patologia invalidante e irreversibile sembrano valere meno di una posizione politica saldamente etica, che di oggettivo ha ben poco e che punta il dito contro il diritto all’autodeterminazione della persona umana.
Ed è così che, privati di una tutela e di un appoggio prima di tutto politico, i cittadini scelgono di agire in autonomia. Ed è per questo che casi come quello di Gianni Trez e di Fabiano Antoniani balzano alle cronache: persone che hanno scelto di affrontare la circostanza più drammatica della vita – la morte – come un’occasione per sensibilizzare e agire politicamente.
I tempi sono senz’altro maturi perché si arrivi ad una legge seria e non raffazzonata sul fine vita, che sia pure relativa al solo testamento biologico, solida manifestazione di volontà del cittadino, consapevole e padrone della propria vita. E l’art. 32 della nostra Costituzione sembra essere in perfetta sintonia con la natura del testamento biologico: “[…] nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Il suolo è dunque sacro, perché inviolabile. Ed è arrivato il momento che questa inviolabilità sia finalmente riconosciuta.