L’economia italiana è penalizzata dalla scarsa partecipazione femminile al lavoro: l’Italia ha bisogno di migliorare le politiche per le famiglie, qualunque sia la loro geometria, e di una maggiore partecipazione degli uomini al lavoro domestico.
L’Italia è il terzultimo paese OCSE, davanti a Turchia e Messico, per livello di partecipazione femminile nel mercato del lavoro: 51% contro una media OCSE del 65%.
Meno del 30% dei bambini al di sotto dei tre anni usufruisce dei servizi all’infanzia e il 33% circa delle donne italiane lavora part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari (la media OCSE è 24%). Le donne sono spesso percepite come le prime responsabili per la cura della famiglia e della casa. Il tempo dedicato dalle donne italiane al lavoro domestico e di cura – in media 3,6 ore al giorno in più rispetto agli uomini – limita la loro partecipazione al lavoro retribuito.
Le proiezioni OCSE mostrano che – a parità di altre condizioni – se nel 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il PIL pro-capite crescerebbe di 1 punto percentuale l’anno.
Questo è quanto sottolinea l’Ocse per l’Italia in merito al gender gap. La partecipazione al mondo del lavoro è la chiave di volta. Ma come far capire che è essenziale un cambiamento di cultura aziendale e dell’intera società, perché non è una questione femminile e sulle nostre spalle non deve ricadere ogni responsabilità? Si cambia dentro le aziende, si cambia nei servizi pubblici (per l’infanzia e non solo, studiando soluzioni ad hoc per ciascun territorio), nei costi degli stessi, nell’equilibrio vita-lavoro-tempo per sé tra uomini e donne. Si deve cambiare l’organizzazione aziendale per aprire a una rivoluzione dei tempi e dei modelli di lavoro. Occorre incidere sulla parità salariale, sulla trasparenza delle retribuzioni, perché retribuire adeguatamente le donne significa consentirgli di poter gestire al meglio la giornata, avvalendosi di aiuti. Il Censis conferma la differenza tra le retribuzioni, con le donne che nel settore privato percepiscono salari inferiori del 19,6% (nel pubblico il gender pay gap è del 3,7%). Inoltre, come alcuni studi evidenziano, nel calcolo del gender gap hanno un notevole peso la percentuale di donne occupate e il fatto che si basi sul salario orario.
Occorre promuovere politiche che incentivino i padri a usufruire del congedo parentale, con ricadute positive sulla divisione dei carichi di lavoro domestico.
Investire in servizi sociali rivolti a famiglia e minori fa la differenza, purtroppo in Italia abbiamo una situazione molto disomogenea.
Occorre investire seriamente in servizi e progetti di ricollocamento lavorativo per le donne di tutte le età, che sia in grado di rispondere alle esigenze concrete di ciascuna.
Se invece la “normalità” è essere precarie, sottopagate, fare orari folli, non poter accedere a flessibilità oraria o a forme di smart work, perdere il lavoro senza prospettive per il futuro, l’effetto sarà una situazione stagnante e altamente regressiva per le donne.
Fare le ore piccole al lavoro è notoriamente improduttivo, come se per coltivare un terreno seminato continuassimo a irrigarlo senza sosta per tutto il giorno. Dopo un tot, marcisce tutto.
Flessibilità e orari più a misura umana sono le leve per una genitorialità migliore e in generale per una vita dagli equilibri sani. Passare del tempo, a sufficienza, con i figli è importante, perché delegare non è sempre una cosa positiva. Avere del tempo da dedicare a sé, alle proprie passioni e per staccare dalla routine è essenziale.
Il mondo del lavoro è cambiato, ne dobbiamo prendere atto e ricalibrare tutto.
Chi siede ai vertici deve muovere questa rimodulazione.
In UE si torna a riflettere sul lavoro e sulle politiche sociali, attraverso un percorso di consultazione iniziato a fine 2016 sul cosiddetto Pilastro europeo dei diritti sociali, approvato di recente dall’Europarlamento. Il documento prevede tre aree: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; eque condizioni di lavoro; adeguata e sostenibile protezione sociale. Lavoro di qualità e uguaglianza di genere i pilastri per assicurare benessere e inclusione, oltre che di sviluppo economico.
Come qualcuno ha già rilevato, occorre restare vigili affinché i diritti sociali non siano subordinati allo stato di occupazione, ma restino dei diritti individuali certi e garantiti sempre. Anche perché il mondo del lavoro è mutato e reddito/autosufficienza/benessere non possono più essere legati unicamente al lavoro, occorrono altri strumenti per garantirli.
Inoltre per l’occupazione femminile occorrerebbe varare una strategia stutturata centrale che faccia lavorare insieme diverse aree e ministeri. Una rivoluzione del welfare e dei servizi. Basta bonus o soluzioni tampone che non hanno intaccato le disuguaglianze e non mirano certo a creare benessere diffuso. Verifichiamo anche l’uso e i vantaggi derivanti dai voucher per i servizi di asilo nido e baby sitter (che coprono solo in parte i costi e poi occorre sempre pensare ai giorni di permesso se il figlio si ammala). Riflettiamo se queste risorse possono essere utilizzate altrove, per misure strutturali che non siano pannicelli caldi. Troviamo forme di agevolazione fiscale per le spese per la cura sostenute dalle famiglie in cui si lavora in due o nelle quali il coniuge disoccupato cerca attivamente lavoro. Naturalmente occorre razionalizzare l’intero sistema di agevolazioni/interventi.
Investire oggi per ottenere risultati nel futuro, anche se non immediato (e quindi poco appetibile per chi guarda solo ai risultati elettorali). Per non lamentarci poi solo dei dati demografici. Se nel 2016 i bambini nati in Italia sono appena 474.000, registrando un nuovo minimo storico, un motivo (o più) ci sarà.
Osservare i dati del Global gender gap report o dell’Istat non ci aiuterà se non cercheremo di affrontare i problemi. Come pensiamo di intervenire sul fatto che ancora quasi un terzo delle donne tra i 25 e i 49 anni è inattiva? In generale in Italia, il tasso di attività femminile è del 54,1 per cento (uomini: 74,1 per cento), molto basso rispetto alla media europea del 66,8 per cento. In più, meno delle metà delle donne è occupata, solo il 47,2 per cento (Eurostat). Come valutiamo la quota di part time involontario che è doppia rispetto al resto d’Europa (oltre il 60%, con una crescita del 38% dal 2008)? Questo dato stride poi con chi vorrebbe scegliere il part time e non riesce a ottenerlo.
A casa come ce la caviamo? Perché la doppia presenza è ancora un punto da risolvere.
L’Ocse conferma che gli uomini italiani sono ancora poco collaborativi nei lavori domestici e dedicano ad aiutare le partner soltanto 100 minuti in media al giorno. Peggio di noi soltanto in Turchia, Portogallo e Messico.
L’ultima indagine dell’Istat sull’uso del tempo (pubblicata a novembre 2016 ma si riferisce al 2014) ci spiega cosa sta cambiando nell’organizzazione dei tempi di vita di uomini e donne: nel 2014 c’è ancora squilibrio nei comportamenti tra i due sessi nella gestione dei tempi di lavoro, sia familiare che retribuito, ma qualcosa sta cambiando.
Si inizia da piccole: “Sin da bambine, le donne svolgono più lavoro familiare e hanno meno tempo libero dei coetanei. La differenza inizia a manifestarsi già tra gli 11 e i 14 anni e aumenta sensibilmente al crescere dell’età.”
Le donne adulte stanno progressivamente riducendo il tempo per il lavoro familiare, da 5h21′ a 5h13′. Il calo riguarda per la prima volta anche le “giovani anziane” (65-74 anni) che recuperano 13′ di tempo libero e perdono 10′ di lavoro familiare.
E gli uomini? Rispetto al 2009 aumenta di 12’ al giorno il tempo dedicato dagli uomini adulti al lavoro familiare (1h50’). Un buon miglioramento se pensiamo che in passato era aumentato di soli 17’ in vent’anni.
“Segnali positivi per la parità di genere si registrano fra le coppie di genitori occupati (con la madre tra 25 e 44 anni), che incontrano più difficoltà a conciliare i tempi di vita. L’indice di asimmetria del lavoro familiare scende per la prima volta nel 2014 sotto il 70%: si attesta al 67,3% dal 71,9% del 2009.”
I segnali più incoraggianti che ci fanno ben sperare provengono dalle coppie con figli di 3-5 anni, in cui la donna è laureata, della generazione dei Millenial che hanno una distribuzione più equa dei carichi di lavoro familiare. L’asimmetria di genere migliora al Nord e al Centro mentre è invariata nel Mezzogiorno (74%) dove gli stereotipi sono ancora forti anche nelle nuove generazioni.
Tra le coppie di genitori tra i 25 e i 44 anni entrambi occupati “i padri arrivano a dedicare al lavoro totale 8h22’ (la media per il complesso degli occupati è di 7h28’), mentre le madri arrivano fino a 9h07’ (la media per le adulte è di 8h26’): la somma del lavoro domestico, del lavoro di cura di figli e del lavoro retribuito che gravano su entrambi i partner rende la gestione dei tempi quotidiani e degli equilibri tra di essi rappresentativa dei ruoli di genere del Paese. Il carico di lavoro è tale, infatti, che la collaborazione tra i partner e una buona divisione del lavoro dovrebbe essere la regola, mentre sappiamo dalle precedenti edizioni dell’indagine quanto in passato il carico gravasse pesantemente sulle donne. Tra l’altro il ricorso da parte di tali coppie ai servizi privati (colf e babysitter) continua a riguardarne una porzione marginale (il 7,7% si avvale di un aiuto nelle attività domestiche e il 4,5% di una babysitter), pertanto per la gran parte delle coppie il lavoro familiare resta totalmente a carico della famiglia.”
Nel 2014 il 67,3% del lavoro familiare delle coppie di “giovani adulti” a doppio reddito è a carico delle donne; rispetto al 2009 c’è stato un calo di quasi cinque punti percentuali (71,9%).
Nel 2014 le madri occupate tra 25 e 44 anni dedicano al lavoro familiare 5h11’, dato rimasto stabile rispetto a quanto osservato nel 2009, mentre i loro partner vi dedicano 2h16’, con un incremento di 17’ rispetto alla passata edizione. Piccoli passi che si spera mantengano il trend di crescita.
Ma come viene distribuito il lavoro domestico?
Le attività che vedono prevalere il contributo maschile rispetto a quello femminile restano la manutenzione della casa e dei veicoli (solo l’8,8% delle ore è svolto dalle donne) e la cura di piante e animali (30,4%), anche se ricordiamo che tali attività hanno frequenze di partecipazione molto basse (in un giorno medio le svolgono rispettivamente solo il 5,1% e il 10,7% degli uomini).
Per il resto delle attività di lavoro domestico la divisione dei ruoli all’interno delle coppie è ancora molto sbilanciata sulle donne, in particolare lavare e stirare grava per il 94% su di loro, pulire casa per il 77% e la preparazione dei pasti per il 76,6%, valori ancora molto asimmetrici, anche se in miglioramento.
L’attività di cura che più impegna le madri riguarda le cure fisiche e la sorveglianza (dar da mangiare, vestire, far addormentare i bambini o semplicemente tenerli sotto controllo): in un giorno medio settimanale vi dedicano 57’, contro i 20’ dei padri. Tuttavia rispetto al 2009 il livello di condivisione è migliorato, poiché l’asimmetria è scesa dal 77,6% al 72,6% grazie all’aumento della quota di padri che inizia ad assumersi l’onere di queste attività (dal 35% al 42,2%).
L’attività che, invece, impegna i padri più delle madri è quella di giocare con i bambini: è a carico loro il 61,7% delle attività svolte dalla coppia (in media 26’ al giorno, contro i 22’ delle madri).
Sono il 37,5% dei padri e il 30,6% delle madri che nel giorno medio hanno indicato di spendere almeno 10’ in attività di gioco con i propri figli.
Lo stereotipo dell’uomo breadwinner, che deve sostenere economicamente la famiglia, resiste soprattutto tra chi ha un basso titolo di studio.
Insomma, piano piano, educando anche i maschi a occuparsi di alcune attività potremo sovvertire stereotipi e ruoli secolari, a beneficio dell’intera comunità.
Il tempo libero delle donne per potersi ritagliare una stanza tutta per sé è ancora una sfida di equilibri. Che si lavori o meno, perché anche quando si perde il lavoro, si resta a casa più o meno volontariamente, la giornata è di fatto in gran parte fagocitata dalle cure familiari. Piano piano uomini e donne devono imparare a condividere pesi e responsabilità, per un benessere eguale.
Otto marzo passato, così l’attenzione fugace e un po’ ipocrita dei media. Poi tutti su Lingotto e Salvini. Tutti nuovamente impegnati a rimuovere le donne dall’agenda politica. Che vuoi che sia, tanto sono questioni “risibili”, come qualcuno asserisce. Nemmeno le 70 città che hanno aderito all’appello di Nonunadimeno hanno scosso le menti e i pensieri dei nostri uomini politici (e al contempo di qualche donna politica). Nulla, la nostra classe politica è ancora altrove. Nemmeno si degna di capire cosa si muove tra i movimenti sociali. Se poi sono movimenti delle donne, godono di ancor minore considerazione. Non è contemplata una risposta. E quindi questo tipo di agire politico continua ad annaspare tra vecchie manie di superiorità, immunità, autosufficienza, di autoreferenzialità e di isolazionismo. Le battaglie devono riuscire a smuovere questa situazione, altrimenti sono lampi passeggeri e innocui. Non mi è mai piaciuta la camomilla. La mia azione politica è un movimento tellurico. Dovremo imparare a mobilitarci ogniqualvolta qualcuno tenti di svilire le nostre rivendicazioni e non rispetti i nostri diritti. Se non verranno sufficientemente difesi sappiamo che lentamente evaporeranno. Chi ci ascolterà e chi pretenderà una risposta adeguata dalla nostra classe dirigente? Non lasceremo calare il silenzio, dovremo richiamare con forza le istituzioni alle loro responsabilità. Pensiamo che cambierà qualcosa se non pretenderemo che si cambi registro? È questione di principio e di sostanza, per il futuro, affinché sia davvero nettamente diverso. Ma occorre coraggio, occorre saper e voler rischiare in prima persona. Alla fine avremo molti nemici, ma forse avremo conquistato qualche diritto o tutela in più. Soprattutto avremo tentato di cambiare.
Per approfondire:
Women at work by ILO