È opinione diffusa che il passato offra solo modelli di inferiorità sociale e culturale e che pertanto uno studio approfondito in tal senso non possa che accrescere la consapevolezza circa la presunta superiorità moderna. Ebbene, se le donne dell’Antico Egitto potessero tornare a far sentire la propria voce, forse non sarebbero affatto d’accordo.
Nel 1829 – anno del suo unico viaggio nelle terre nilote – Jean-François Champollion ricordava infatti “(…) Quanto la civiltà egizia differisse in modo sostanziale da quella del resto dell’Oriente e si avvicinasse invece alla nostra, perché si può valutare il grado di civiltà dei popoli dalla condizione più meno sopportabile della donna all’interno dell’organizzazione sociale”.
In effetti, libertà e autonomia erano parte integrante del tessuto connettivo tipico del contesto faraonico: una realtà sconvolgente, se ricondotta alla sfera femminile. I primi visitatori greci (il geografo Diodoro Siculo in primis) rimasero alquanto sconcertati dalla grande disinvoltura mostrata dalle suddite faraoniche in ogni ambito esistenziale. Limitati da una forma di mentalità alquanto riduttiva, non riuscivano a comprendere – e soprattutto ad accettare – l’importanza riconosciuta culturalmente, socialmente e giuridicamente all’altra metà del cielo.
Indubbiamente, almeno sul piano politico-sociale, il ruolo rivestito dalle donne influenzò in maniera notevole la storia nazionale, a livello sia politico che sociale. Del resto, la parità tra i sessi incarnava un valore fondamentale e inopinabile: fino dell’ascesa delle dinastie greche al trono infatti, le egiziane vivevano in condizioni ancora oggi ineguagliabili; ciò che ai contemporanei potrebbe apparie una conquista avrebbe certamente fatto sorridere con indulgenza quelle antiche progenitrici. D’altronde, la civiltà del Nilo aveva instaurato un vero culto della bellezza (muliebre in particolare): non soprende, dunque, che nei confronti dell’universo femminile vigesse la più alta forma di rispetto.
Contrariamente ai pregiudizi moderni, la donna dell’Antico Egitto non divenne mai competitiva con l’uomo in quanto, semplicemente, non era necessario: maschi e femmine erano considerati uguali legalmente e di fatto. Alla cittadina non era imposta alcuna tutela, agiva in piena autonomia anche nella gestione dei beni personali, era libera nelle proprie scelte di vita e non subiva discriminazioni di sorta. Aveva sempre l’opportunità di affermarsi, conscia della propria responsabilità.
Alcuni frammenti del Papiro Harris (I, 79, 8-9, 13) rimandano a una dichiarazione del faraone Ramses III, itesa a ribadire che una donna avrebbe potuto recarsi ovunque desiderasse senza essere importunata: inutile ricordare quanto attualmente ciò si riveli quasi impossibile, a fronte dell’emblematico processo involutivo in atto.
Il fattore religioso ha certo giocato un ruolo notevole in tal senso: non va dimenticato infatti che, in linea generale, una civiltà viene plasmata su un mito o su un insieme di leggende. Quella egizia, nella fattispecie, era totalmente permeata dall’emanazione di Iside, la dea madre, l’onnisciente, colei che deteneva il segreto della vita e della morte, assugendo così a garante della salvezza dei suoi fedeli.
A differenza dell’Eva giudaico cristiana, tendente a suggerire una certa “inferiorità spirituale” della donna, la dea per antonomasia – poiché incarnazione di perfezione assoluta – proiettava un riflesso positivo sulla figura femminile, che sottratta a prerogative negative di corruzione e di conoscenza assumeva le caratteristiche di “colei che aveva saputo superare le peggiori prove giungendo al segreto della resurrezione“.
Il risultato fu che la grande madre riuscì ad affermarsi quale modello supremo per donne di ogni classe sociale, che di lei percepivano l’innata abilità di varcare barriere insormontabili per mezzo di una fede incrollabile e di una grande forza morale.
In una simile oìttica è certamente impossibile negare alle donne di allora una destrezza non comune anche in seno alle molteplici difficoltà della vita quotidiana: la completa indipendenza di cui beneficiavano comportava infatti oneri niente affatto trascurabili sul piano della responsabilità individuale.
Nessuna donna poteva essere indotta al matrimonio con un uomo a lei non gradito. Un padre non aveva il diritto di imporre pretendenti alla figlia (l’unica in grado di prendere decisioni) e nessuna legge imponeva convivenze forzate. Colei che avesse optato per il nubilato, quindi, non sarebbe stata ritenuta irresponsabile per la gestione autonoma esercitata sul patrimonio posseduto, a prescindere dalla sua entità.
Alla verginità non veniva conferita una valenza particolare , dal momento che per entrambi i sessi le esperienze prematrimoniali erano non solo consentite ma anche auspicate, in vista di un eventuale matrimonio in cui la fedeltà reciproca avrebbe dovuto essere pressoché assoluta, così come l’assenza di violenze fisiche o psicologiche all’interno del nucleo familiare (e, del resto, la severità delle punizioni inflitte a chiunque si fosse reso colpevole di maltrattamenti contribuiva largamente a scoraggiare questa pratica oggi invece sempre più diffusa, a ulteriore dimostrazione del degrado morale incombente). Il rispetto era insomma ritenuto basilare per la durata di un rapporto di coppia
L’unione matrimoniale non era in realtà sancita da alcun rito legale o religioso: bastava dimostrare uno status di convivenza affinché due persone fossero considerate sposate a tutti gli effetti. Talvolta i futuri sposi ricorrevano a contratti temporanei di matrimonio, intesi come forma di collaudo sentimentale: ma dopo sette anni di coabitazione effettiva dovevano assolutamente definire il loro legame per fissare i diritti della sposa e degli eventuali figli nati nel frattempo.
Il matrimonio era suggellato da una semplice formula: “Tu sei mio marito”, “Tu sei mia moglie”, in virtù della quale l’uomo si incaricava di garantire il benessere della consorte in caso di divorzio.
Generalmente – e nonostante la carenza di leggi specializzate in materia – le unioni erano durature e soddisfacenti per entrambi i coniugi, anche se naturalmente non mancavano i divorzi. Le cause di rottura di un legame andavano ricondotte a disaccordi, disamore per il partner e conseguente ambizione a un nuovo rapporto amoroso, conflitti di interesse e, last but not least, adulterio.
In caso di separazione consensuale, i coniugi venivano convocati da un apposito tribunale per esporre le rispettive ragioni e chi decideva di abbandonare il tetto coniugale era poi tenuto a corrispondere all’altro un debito risarcimento materiale. La burocrazia divorzista egizia non contemplava l’accusa infondata di trdimentoo, formulata dai mariti per puro spirito di vendetta. Se ciò fosse avvenuto, la donna avrebbe giurato davanti al coniuge e ad alcuni testimoni di non essere incorsa in avventure extraconiugali. A questo punto sarebbe stata scagionata da qualsiasi sospetto, poiché nell’Antico Egitto il giuramento impegnava l’intera persona e, se falso, ne avrebbe comportato la condanna definitiva del tribunale ultraterreno (l’individuo bugiardo perdeva insomma la possibilità di vita eterna), mentre l autore della falsa accusa sarebbe stato costretto a risarcire lavittima in base agli accordi stabiliti nella fase preliminare del contratto di unione.
A fronte della vedovanza, la moglie ereditava i possedimenti familiari, a condizione di riservarne un un terzo per sé e suddividerne il resto tra i figli, in proporzioni uguali sia per i maschi che per le femmine. Con una nuova unione non avrebbe dovuto temere di perdere alcunché.
Ampia libertà anche relativamente allo stile di vita da adottare: ciascuna egiziana poteva badare esclusivamente alla casa oppure esercitare una qualsiasi attività lavorativa. È emblematico che mentre il mondo moderno persiste a discutere sull’opportunità di allargare le quote rosa in Parlamento e nelle pubbliche istituzioni o si stupisce per l’accesso femminile a incarichi tradizionalmente ritenuti maschili, l’Antico Egitto concedeva alle donne innumerevoli possibilità di realizzazione professionale nelle attività che caratterizzavano la corte faraonica, a eccezione dell’esercito.
Si registrano casi di donne incoronate faraoni (la prima a essere insignita del titolo di “re dell’Alto e Basso Egitto” fu Nitocris, salita al trono intorno al 2184 a.C.; basterebbe comunque citare i nomi di Sobeknefrure – sorella o moglie di Amenemhet IV, Hatshepsut , o Nefertiti , per citare qualche esempio); e da un’iscrizione risalente all’Antico Regno (stele di Abido, CG 1578) ci giunge addirittura notizia di un visir in gonnella, tale Nebet, moglie di Khui.
Una donna poteva facilmente trovarsi alla direzione di una provincia, di una città, di una circoscrizione amministrativa; aveva facoltà di ottenere la carica di ispettrice del Tesoro, Capo delle Stoffe e della Casa della Tessitura, dei Cantori, delle Danzatrici della Camera delle Parrucche e così via.
Una tomba di Saqqara offre l’interessante testimonianza su Idut, nominata Proprietario di Tenuta, titolo normalmente riservato agli uomini. Dalle iscrizioni che affrescano le pareti della sua dimora eterna, sappiamo che si spostava spesso con una barca (circostanza assai inconsueta per una donna) contenente il materiale da scriba (tavoletta, calamai, inchiostri, papiro): il che significa che sapeva leggere e scrivere e aveva una certa familiarità con i geroglifici.
All’epoca faraonica, l’istruzione femminile era piuttosto diffusa persino tra il ceto sociale più umile, com’è comprovato sia dalla corrispondenza che alcune donne del villaggio di Deir el Medina – mogli di tagliatori di pietre, disegnatori, pittori, braccianti – intrattenevano con uomini ai quali sottoponevano i loro problemi quotidiani, sia da comuni liste di panni da lavare rinvenute nel corso degli scavi.
Vi erano anche casi frequenti di donne molto stimate in campo medico: bendatici, ostetriche, massaggiatrici, chirurghi. Iniziavano, al pari dei loro colleghi maschi, con incarichi di specializzazione per poi aspirare ai vertici della carriera, rappresentati dai medici generici.
La medicina – scienza in cui l’Egitto eccelleva – era concepita in modo totalmente opposto a qullo odierno; sacro e profano vi si sovrapponevano inevitabilmente, cosicché un medico che conosceva il segreto del “funzionamento del cuore” non poteva ignorare che l’organo era certo un muscolo cardiaco ma anche, contemporaneamente, centro di energia e origine dei “vasi”, ossia delle vie di circolazione della vita nell’intero organismo. Il sistema sanitario egizio riservava oltretutto molta attenzione alla salute femminile, in virtù della grande importanza sociale riconosciuta alla donna. Importanza che, va sottolineato, non veniva meno neppure tra le pareti domestiche.
Il titolo di “padrona di casa” (risalente al Medio Regno) era tutt’altro che riduttivo: indicava, al contrario, l’insieme delle funzioni che sin dalle origini della civiltà egizia la donna aveva esercitato.
Essa “regnava” sulla propria “casa”, intesa come un conglomerato di persone e di beni che va decisamente oltre i limiti del nucleo familiare e si estende anche ai domestici, agli animali, alle terre coltivabili e talvolta ad attività artigianali.
Non è azzardato affermare che la donna si trovava a detenere il dominio di un vero e proprio impero personale. Il saggio Ani soleva ripetere agli uomini parole che ora acquistano una rilevanza ancora più particolare: “(…) Ammira il suo lavoro e taci. Invece di brontolare e criticare, è meglio aiutarla secondo i suoi desideri: non è forse felice quando la mano di suo marito è nella sua? (…)”. In casa, la figura femminile era fondamentale: a lei spettava la preparazione dell’alimento base, il pane-birra . Doveva setacciare, macinare, impastare, battere i cereali; l’uomo, a sua volta, aveva il compito di cuocere e di svolgere i lavori agricoli come fare il vino, salare e seccare la carne, preparare i pesci e, spesso, cucinare. Uomini e donne condividevano equamente le mansioni domestiche, senza mai sottrarsi ai rispettivi impegni.
I figli di entrambi i sessi ricevevano dalla madre un’educazione identica, il cui fulcro era rappresentato dal rispetto e dalla conoscenza di Maat, la Regola universale.
In termini di mera quotidianità, ciò si traduceva in amore per la verità e odio per la menzogna, negazione di eccessi e passioni distruttive, senso di umiltà e solidarietà, capacità di ascoltare e parlare a proposito, rispetto della parola data, correttezza nelle azioni e ammissione dell’esistenza del sacro in ogni luogo.
Il rapporto con i figli rifletteva profondamente il senso del mistero racchiuso nell’esistenza. E’ de resto la ragione per cui una madre incarnava la dea Iside sin dal momento del parto: disponeva di una raccolta di formule per proteggere se stessa e il neonato dalle forze oscure e negative che avrebbero potuto subentrare a turbare un raggiunto equilibrio. Non er raro il ricorso a una serie di amuleti e talismani contro la morte, considerata parte integrante del processo cosmico o più semplicemente una tappa della vita intesa oltre la nascita e il decesso fisico.
Va sottolineato che, in netta contrapposizione coni ciò che avveniva nell’antica Roma o nella Grecia classica, anche sul piano della pianificazione familiare le femmine non subirono mai discriminazioni. L’arrivo di una femmina in seno a una famiglia era considerato un evento lieto quanto quello di un maschio.
La privilegiata situazione delle egizie, tuttavia, non era destinata a durare nel tempo. Con l’ascesa al trono faraonico di Tolomeo Filopatore (221-205 a. C.) le donne furono ridotte al medesimo livello delle greche. Private di qualsiasi libertà giuridica e commerciale; furono affiancate da un tutore e videro improvvisamente svanire la loro uguaglianza con gli uomini.
Da protagoniste della vita sociale divennero individui insignificanti, sottomessi e dipendenti dall’autorità maschile. L’avvento del cristianesimo – e in seguito l’islam – contribuirono a relegarle a uno stato di inferiorità anche spirituale che, in alcune aree del pianeta, seguita purtroppo a persistere.