Il ddl Puppato, anche se in tante hanno firmato e contribuito alla sua stesura, propone proprio la nascita di una nuova fattispecie di reato all’interno del Codice Penale: l’omicidio d’identità
In questi giorni sono stati resi noti gli ultimi dati Istat relativi alla violenza di genere.
È difficile restare impassibili di fronte ai numeri presentati: oltre 4,5 milioni di donne hanno dichiarato di aver subito violenze di varia natura, come stupri e rapporti sessuali non desiderati, mentre 8,3 milioni di donne hanno confessato di esser state psicologicamente vessate dal partner o dall’ex. Dalla svalutazione su più livelli all’isolamento, l’obiettivo è privare la donna delle risorse pratiche ed emotive che potrebbero aiutarla ad emanciparsi da un contesto di violenza, considerando inoltre che proprio dalla denigrazione può nascere quel senso di colpa che rende complesso il percorso di uscita da una relazione tossica e determinante il ruolo svolto sul territorio dai centri antiviolenza e dalle associazioni di primo ascolto.
Ci sono stati tuttavia casi particolarmente eclatanti, nei quali oltre ad intervenire il desiderio di sottomettere la donna è subentrata una concreta volontà di annullarne ogni percezione fisica, ovvero di sopprimerne l’identità. Mi riferisco in particolar modo a quanto accaduto a Lucia Annibali e Gessica Notaro, aggredite con l’acido da quelli che erano stati loro partner e letteralmente derubate della propria fisionomia. I loro percorsi hanno previsto una lenta rinascita tanto fisica – attraverso dolorosi interventi chirurgici – quanto psicologica, per affrontare la vita con rinnovata grinta e per trasformare una dolorosa esperienza in un utile insegnamento per tutti noi.
Il ddl Puppato, anche se in tante hanno firmato e contribuito alla sua stesura, propone proprio la nascita di una nuova fattispecie di reato all’interno del Codice Penale, con l’introduzione degli artt. 577-bis, 577-ter e 577-quater che rivisitano la materia e la innovano, alla luce delle dinamiche complesse della violenza di genere e degli intenti nascosti dietro attacchi di tal portata.
Di seguito, alcune delle novità apportate alla materia da questo disegno di legge:
– una pena non inferiore ai 12 anni di reclusione per danni inflitti volontariamente, che siano essi parziali o totali;
– un incremento della pena da un terzo alla metà se il reato viene commesso da un coniuge, ex coniuge, convivente e/o parte dell’unione civile, da un ascendente o da un discendente;
– perdita di ogni diritto agli alimenti e alla successione;
– sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte;
– possibilità, in caso di condanna, di godere di benefici di pena solo sulla base di un’osservazione scientifica della personalità per almeno un anno.
Tralascio in questa sede alcuni aspetti interessanti, legati in particolar modo al monitoraggio della casistica e ai progetti previsti in ambito scolastico, poiché meriterebbero riflessioni più mirate, ma quello che è importante sottolineare è l’intento di restituire dignità e rispetto a chi subisce violenze, evidenziando l’intenzionalità dell’azione e la necessità di punire adeguatamente il reato.
Il presupposto è che il viso sia lo strumento attraverso il quale si fissano le basi per la comunicazione e l’interazione con gli individui: cancellarne ogni tratto distintivo mina il riconoscimento di sé, ma anche il riconoscimento da parte degli altri, vanificando quel lungo percorso di crescita e costruzione dell’identità che dura tutta una vita.
Proposte concrete come questa– al di là di slogan elettorali e politici – possono rivelarsi un buon deterrente e porre solide basi per la prevenzione della violenza sulle donne.