Il ragazzo che ha sbagliato va portato a non sbagliare di nuovo.
Sono passati 58 anni dalla prima pubblicazione in Italia (1959) del romanzo di Gilbert Cesbron “Cani perduti senza collare”, che ebbe e ha tuttora enorme risonanza tra chi si occupa di educazione, di ri-educazione e di gioventù.
Romanzo accolto soprattutto dal mondo cattolico come linea guida per l’educazione dei ragazzi, ha, pur considerandone l’età e l’ingenuità talvolta tipica della visione religiosa, il pregio di porre in risalto quanto siano importanti, per i ragazzi, la fiducia, la responsabilizzazione, l’amore anche in contesti in cui sembra che nulla sia possibile.
L’Italia, lo sappiamo da recenti indagini, non è un paese per giovani, con altissimi tassi di disoccupazione giovanile, livello di felicità percepita dai bambini agli ultimi posti in Europa, servizi per l’infanzia quasi inesistenti, una scuola la cui qualità è in caduta libera, vittima di tagli e riforme spregiudicate e una crescente quanto preoccupante diffusione del bullismo e della violenza di genere tra ragazzini, anche in età da scuola primaria.
La cronaca di questi ultimi mesi parla chiaro: dai bambini di quinta elementare che, in un prestigioso istituto privato e religioso di Milano, bullizzano una bambina di 7 anni perché “le femmine devono stare a casa a pulire i pavimenti e non andare a scuola”, ai sempre più frequenti stupri e violenze di gruppo che vengono filmati e diffusi sui social.
Cosa sono questi ragazzi, questi bambini, se non cani perduti senza collare, senza consapevolezza delle conseguenze, senza responsabilità, che è il collare più efficace, quello che alla fine ci si mette da soli?
Attenzione: la chiave di questo romanzo non è quella del controllo, della punizione, della segregazione, ma è quello dell’empatia. Il protagonista del libro, il giudice Lamy, spiega chiaramente alla persona designata a prendere il suo posto, che non c’è giustizia senza amore e che l’amore si prova per empatia, non solo degli adulti responsabili nei confronti dei ragazzi, ma anche e soprattutto, dei ragazzi verso i compagni.
Il metodo rieducativo del giudice si basa sui legami positivi che si vanno a creare tra coetanei e con gli adulti, basati su rispetto concesso ed esatto, su responsabilità e fiducia che, insieme, costruiscono una società dove il contributo di ognuno è importante, insostituibile, valorizzabile.
Il giudice pone una chiara domanda, intorno a cui ruota tutto il romanzo e intorno a cui il mondo educativo moderno deve ruotare: se un ragazzo ruba una bicicletta, quale sorte importa alla società? Quella della bicicletta o quella del ragazzo?
Il ragazzo che ha sbagliato va portato a non sbagliare di nuovo, perché il sottile confine tra chi sbaglia e chi no, a questa età, è l’occasione. Ma chi fornisce, secondo il giudice, questa occasione? Noi, la società.
Abbiamo quindi noi adulti, noi tutti, l’enorme responsabilità di fornire a questi ragazzi le occasioni giuste, tenendo lontano quelle sbagliate.
Luogo principe deputato a questa fornitura di occasioni è (o, purtroppo, dovrebbe essere) la scuola.
Questa scuola zoppicante che cerca di fornire le competenze chiave ai suoi utenti, tra cui si annoverano la cittadinanza, la legalità, il rispetto senza forme discriminatorie verso nessuno, con esplicita menzione delle discriminazioni di genere e di orientamento. Scuola che parla di inclusione, di accoglienza.
Scuola che però è lasciata a se stessa nell’attuazione di questi validissimi principi e che si avvale, se vuole avvalersi, delle iniziative delle singole amministrazioni, quando ci sono, o dei singoli individui di buona volontà, che sono, da sempre la forza degli Italiani.
Ecco che, per esempio, le consigliere per le pari opportunità delle province di Milano e di Monza e Brianza, in collaborazione con Afol (Agenzia di Formazione, Orientamento e Lavoro) propongono già da qualche anno il validissimo progetto ImPARI a Scuola, incentrato sullo scardinamento degli stereotipi di genere, per la liberazione delle potenzialità, delle aspirazioni, per la piena espressione dei bambini, delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze.
Questo progetto si basa proprio sulle teorie enunciate nel 1954 (anno di pubblicazione in Francia) da Cesbron: fornire ai ragazzi e alle ragazze i mezzi per esprimere se stessi al meglio, riconoscendo negli altri e nei legami con gli altri, un arricchimento basato sul rispetto e sulla totale identificazione di valore. Io valgo perchè tu vali con tutti i tuoi punti di forza, le tue debolezze, le tue caratteristiche.
Eppure, in uno stato come il nostro, che brancola nel buio dell’ignoranza e dell’oscurantismo medievale, questi principi cozzano contro quella che ho appena indicato, in un recente articolo, come “la rovina dei popoli”. La religione.
Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare della “Teoria Gender”, cavallo di battaglia di associazioni ultra cattoliche. Inesistente quanto ridicola minaccia all’Ordine Naturale delle Cose, in cui esiste un solo modo di rapportarsi agli altri, definito in base alle caratteristiche fisiche. Così naturale, che, se si parla di genere, applicare i principi fondamentali non solo della scuola ma anche della nostra Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini e le cittadine, invece che normale attività didattica, diventa “pericoloso” e si verificano casi in cui il progetto ImPARI a Scuola viene bocciato dalle scuole, in quanto “contrario al PTOF” (piano triennale dell’offerta formativa), che invece enuncia, perfetto sulla carta, proprio i principi di uguaglianza, responsabilità, rispetto, accoglienza, parità, che la scuola deve garantire.
Ci sono molte domande da farsi, a questo punto.
Domande che aumentano quando le stesse scuole aderiscono invece a progetti sulla presenza sul territorio dell’Arma dei Carabinieri. Ferma restando l’importanza e la nobiltà dell’Arma, fermi restando i principi di legalità e la fiducia nel fatto che il progetto non sarà che una celebrazione dei valori di fedeltà al paese, di umanità nelle missioni di soccorso, di coraggio e patriottismo, non posso che ripensare ai “Cani perduti senza collare”.
I ragazzi di Cesbron vengono difesi dalla mera applicazione della legge proprio da chi deve amministrare la Giustizia, il giudice Lamy. Con i ragazzi, insegna Lamy, non serve il pugno di ferro. Il collare di cui sono privi non deve essere quello del castigo, quello della forza, quello della violenza, ma quello dell’amore.
Come può un’istituzione educativa come quella scolastica, rifiutare con sdegno un progetto basato sull’accoglienza totale dell’altro, per accettarne e promuoverne uno che celebra “la Giustizia”, l’Esercito, la Forza delle Istituzioni, senza peraltro inserirlo in nessun cammino didattico, se non quello del “se non fai, io ti punisco”? Il progetto ImPARI a Scuola ha il grandissimo punto di forza di non rivolgersi ai ragazzi e alle ragazze, ma al corpo docenti e alle famiglie. Si basa sulla formazione degli educatori perché calino nella pratica didattica ed educativa quotidiana i principi di parità. Questa è la chiave. Ricordate la differenza tra ragazzi che sbagliano e che non sbagliano, secondo Cesbron? Le opportunità date dalla società.
Una scuola che, al momento di scegliere a che progetto aderire, sceglie quello dei carabinieri, senza tenere conto che, accanto a uomini e donne onesti e coraggiosi, scelgono di entrare nell’Arma anche soggetti che si avvalgono della divisa per compiere “atti di forza” impuniti (il caso Cucchi spaventa solo me?), è giustificabile solo se aderisce per sviluppare le competenze di Cittadinanza ed educazione alla legalità menzionate prima, ma non può non aderire anche a progetti come ImPARI a Scuola (o equivalenti), se il fine che si prefigge è educativo. E che altro fine potrebbe avere la scuola, se non questo? L’educazione alla legalità non passa dalla paura delle forze dell’ordine, dovrebbe passare dal riconoscimento che gli altri, tutti gli altri, hanno i nostri stessi diritti, i nostri stessi doveri e il nostro stesso valore.
Non c’è Giustizia senza Amore, questo è da tenere bene in mente.
Altrimenti ci si trova davanti all’ennesimo esempio di bigottismo con culto dell’Uomo Forte che ha portato al disastro fascista in Italia. Basato su una rigida distinzione tra i sessi, su un “essere umano di serie A” e tanti di serie B, su una finta uguaglianza tra persone e su una acritica obbedienza a chi urla più forte in nome di una millantata “naturalità” delle cose. L’uomo naturalmente “capo” famiglia, il bianco naturalmente superiore al nero, il cristiano naturalmente superiore all’ebreo.
Con buona pace del cattolico Cesbron che pone Lamy di fronte a Notre Dame a riflettere sulla fiducia da concedere al ragazzo dal pessimo comportamento, che viene messo in grado di amare e obbedire a chi gli mette il collare, perché glielo mette con amore e offrendogli l’opportunità di essere migliore.