Qualche aggiornamento in tema di salute sessuale e riproduttiva, tra diritti non sempre assicurati come previsto, servizi in difficoltà, richiami internazionali e vuoti nel sistema di educazione a una sessualità consapevole.
Dopo altri interventi rilevanti da parte di organismi internazionali, anche le Nazioni Unite si pronunciano sulle difficoltà delle donne italiane ad accedere ai servizi di IVG.
“Il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per le difficoltà che le donne devono affrontare per accedere all’ interruzione volontaria di gravidanza a causa dell’elevato numero di medici obiettori che si rifiutano in tutto il paese di effettuare il servizio.”
L’elevato numero e la modalità di distribuzione dei medici che rifiutano di prestare il servizio in tutto il paese sono stati considerati come fonte di violazione dei diritti umani.
“Le Nazioni Unite hanno richiesto al governo italiano di adottare le misure necessarie, non solo per eliminare tutti gli impedimenti, ma anche per garantire il tempestivo accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza sul suo territorio per tutte le donne che ne fanno richiesta.
Viene richiesto al governo italiano di creare un sistema efficace di riferimento delle pazienti, quindi di stabilire protocolli e linee guida per garantire che gli ospedali che non forniscono il servizio si assicurino attivamente che le pazienti ottengano il servizio in altre strutture sanitarie.”
“La Lombardia si conferma una regione non virtuosa per l’applicazione della legge 194, che garantisce e regola l’interruzione di gravidanza nelle strutture sanitarie italiane. Lo dimostra l’indagine effettuata dal gruppo regionale del PD struttura per struttura, relativi al 2016.”
“Il ricorso all’Ivg è in calo progressivo in tutta Italia e lo è anche in Lombardia (nel 2015 -10,5% rispetto al 2014) e questo conferma che la 194 è una legge efficace”, anche se non sempre applicata a dovere, a causa del numero di medici obiettori che raggiunge il 68,2%, ma che vede 6 su 63 i presidi nei quali la totalità dei ginecologi è obiettore di coscienza (Iseo, Sondalo, Chiavenna, Gavardo, Gallarate, Oglio Po). In 16 strutture è superiore all’80% e solo in 5 l’obiezione è inferiore al 50%.
L’ipotesi di indire concorsi ad hoc per medici non obiettori (come è accaduto nel Lazio) è solo una delle strade percorribili. Perché occorrerebbe incidere centralmente per riequilibrare il numero di obiettori e non. E di proposte di legge in tal senso ne sono state presentate tante e giacciono tutte in attesa di esame.
Anche perché la carenza di medici non obiettori si ripercuote sulle nostre tasche:
“Per sopperire, i pochi ginecologi non obiettori a rotazione coprono più presidi ospedalieri spostandosi esclusivamente per effettuare IVG. In alternativa, le ASST sono costrette a ricorrere a personale esterno, cioè a medici gettonisti che si recano negli ospedali esclusivamente per questo tipo di intervento e per i quali nel 2016 sono stati spesi 153.414,00 euro.”
Recentissima questa proposta di legge che intende intervenire a monte.
In fase preliminare del concorso, ciascun candidato dovrebbe manifestare esplicitamente per iscritto la sua scelta. In caso di non obiezione, questo elemento costituirebbe un titolo aggiuntivo preferenziale nella definizione della graduatoria. Nel caso in cui la scelta dell’obiezione dovesse essere fatta successivamente alla fase dell’assunzione e quindi concorsuale, essa equivale alla rinuncia all’incarico, con conseguente “dislocamento” in altra sede, anche fuori regione.
In pratica, la dichiarazione di obiezione la si richiederebbe a monte, prima dell’assunzione, mentre al momento si formalizza a incarico assegnato. In caso di parità di punteggio, per ipotesi, sarebbe il medico non obiettore ad avere la precedenza. Quindi si introdurrebbe un criterio nella fase di selezione e di valutazione dei curricula. Potrebbe essere una strada utile per riequilibrare le quote di medici e per introdurre una normativa unitaria per la selezione del personale in ambito ostetrico e ginecologico.
Non è solo una questione di obiezione, ma di un sistema che garantisce i servizi a macchia di leopardo, che ha ancora percentuali esigue di ricorso agli aborti farmacologici attraverso la Ru486. In Lombardia l’utilizzo della RU486 nel 2016 è al 6,6% (927 IVG con RU486 a fronte di un totale di 13.830 Ivg). Sapete perché?
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In Lombardia 33 strutture su 63, il 52%, non praticano Ivg farmacologiche;
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tra una “difficoltà” e l’altra passano i 49 giorni utili per potervi ricorrere;
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a differenza di altre regioni, per l’ Ivg farmacologica è previsto il ricovero obbligatorio di 3 giorni, mentre per il metodo chirurgico è sufficiente il day hospital.
Insomma, esistono una serie di ostacoli che continuano a frapporsi o meglio a essere frapposte.
Eppure nel Lazio partirà una sperimentazione di 18 mesi per l’utilizzo della Ru486 nei consultori. Si ragione in questo senso, per uscire dai reparti di ginecologia, anche in Toscana, dove però si pensa ad ambulatori attrezzati e dopo Pasqua si parte a Firenze.
Certamente occorre avere un investimento nelle strutture (in termini di risorse umane e strumentazione), perché per come sono oggi attrezzati i consultori pubblici lombardi, la vedo difficile.
Quindi se vogliamo veramente assicurare un buon servizio occorre muoversi. Occorre farsi sentire ora che è entrata in vigore una delibera che aggiorna le tariffe delle prestazioni consultoriali in ambito materno infantile e dopo che è stata scongiurata l’ipotesi di far pagare alle minorenni le prestazioni. Perché non approfittare per chiedere un significativo e tangibile impegno per migliorare realmente il servizio e ripristinare le sue funzioni originarie? Perché accontentarsi delle “rassicurazioni” di Gallera, che pensa di chiudere così la questione? Perché non puntare a ripristinare la gratuità delle prestazioni consultoriali, come previsto dalla normativa nazionale del 1975?
La realtà vede la situazione dei consultori in Lombardia in bilico, un destino subordinato alla Riforma della Sanità lombarda, con la conversione in centri per le famiglie, processo ancora in corso e che da subito ha evidenziato una rotta in contrasto con le funzioni originali del presidio.
Anche in Lombardia si registra un’impennata nelle vendite della pillola EllaOne, un contraccettivo d’emergenza, che se assunto fino a 5 giorni dopo il rapporto sessuale, è in grado di ritardare o inibire l’ovulazione. Non è un farmaco abortivo, anche se ancora oggi alcuni farmacisti invocano l’obiezione di coscienza per non venderlo, una prassi ricordiamo non legale (in quanto non esistono farmaci abortivi vendibili in farmacia e quindi l’obiezione non può essere esercitata). La sua diffusione è notevolmente aumentata dal maggio 2015, quando l’AIFA ha eliminato l’obbligo del test di gravidanza e di prescrizione medica (per le maggiorenni, mentre rimane per le minorenni) come condizioni per la vendita.
“In Italia le confezioni distribuite nel 2016 sono state 237.846 a fronte delle 16.798 del 2014. In Lombardia le confezioni distribuite nel 2016 sono state 48.722 a fronte delle 3.871 del 2014. L’incremento è stato di oltre 12 volte. Le IVG sono diminuite nel 2015 del 10,5%.”
Viviamo in un Paese strano. Per un contraccettivo ormonale normale ci vuole la ricetta bianca (possono essere acquistate con la stessa ricetta sulla quale, ogni volta viene messo il timbro della farmacia, fino a 10 volte in sei mesi dalla data di prescrizione), mentre per quelli di emergenza se sei maggiorenne hai diritto ad averli senza. Questo diritto è stato frutto di anni di lotta, ma forse ci ha poi fatto dimenticare, una volta ottenuta la cancellazione dell’obbligo di ricetta, che la lotta doveva continuare su tutto il resto, su ciò che manca ancora, dalla prevenzione, all’educazione, alla facilità di accedere a programmi contraccettivi strutturati e ad hoc, a servizi consultoriali di qualità e diffusi sul territorio.
Non possiamo limitarci a ipotizzare la correlazione tra contraccezione d’emergenza e riduzione del numero di IVG. Poco avremo risolto se non educheremo le donne a una contraccezione consapevole e costante, accessibile e non onerosa (ricordiamo il passaggio in fascia C a pagamento di una serie di contraccettivi prima in fascia A).
Non parliamo mai di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili (Mst), si continuano a rifiutare con orrore le proposte di interventi educativi nelle scuole a riguardo di una sessualità consapevole per tutt*. La riproduzione, la contraccezione sono ancora argomenti tabù, la prevenzione delle Mst ancora una questione da donne. Nel frattempo dovremmo aver capito che così non gira e che i risultati sono pessimi. Ne parlavo qui in modo approfondito. È un problema di relazione, di responsabilità di entrambi i componenti della coppia, è anche in primis un indice di rispetto di sé e del partner. Ma tutto questo a chi sta a cuore?
Si continua a non voler approfondire il fenomeno degli aborti clandestini, che avvengono con metodi che mettono a serio rischio la salute e la vita delle donne. Si continua a fare gli struzzi. In più permangono le elevate sanzioni amministrative che colpiscono le donne per questo tipo di pratiche. Cosa accade nella realtà non si sa. L’atteggiamento generale sembra di rinuncia. Meglio che rimangano questioni private, ognuna per conto proprio, alla mercé del caso, della geografia e della propria capacità di far da sé, di informarsi e di districarsi, su malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze indesiderate, difficoltà riproduttive… Ma stiamo parlando della vita delle donne, della nostra salute, dei nostri diritti sessuali e riproduttivi.
Ah, sì, dimenticavo, sarebbe meglio che la smettessimo di rompere, non sia mai che vi disturbiamo troppo.