( Operaia milanese della manifattura dei tabacchi)
Vedova di Ermanno cinque anni fa, a nulla è servito il trasferimento dalla manifattura di Milano a quella di Bari.
di Giuditta Abatescianni
Era addetta alla distribuzione delle razioni giornaliere e mensili delle sigarette e un pomeriggio la trattenni nel mio ufficio, considerato che aveva terminato le consegne.
“ Sono rimasta vedova di Ermanno cinque anni fa, a nulla è servito il trasferimento dalla manifattura di Milano a quella di Bari. Ci avevano consigliato il trasferimento perchè l’aria di Bari sarebbe stata più adatta ai problemi di salute di mio marito che per vent’anni era stato adibito al reparto della concia e della profumazione del tabacco. Ermanno è stato un lavoratore instancabile e mai si è preso un giorno di malattia nonostante fosse sempre sofferente per una bronchite cronica. Incominciò a perdere l’uso dell’olfatto, gli occhi erano sempre arrossati, sulla pelle aveva delle vescichette che non accennavano a guarire e sempre più spesso gli accadeva di perdere i sensi e si accasciava al suolo.
Tante informazioni sul suo stato fisico le ho avute soltanto dopo la sua morte, perché egli era un uomo dignitoso e molto riservato e cercava di minimizzare la gravità dei suoi problemi. Quando ci incontravamo alla mensa Ermanno non mangiava, era nervoso e tossiva in continuazione. Lo avevo pregato di farsi visitare dal medico di fabbrica ma lui si ostinava a dire che stava bene, sarebbe bastato lo sciroppo. Avevo persino pensato che fosse in quello stato per la nostalgia della sua città, dei parenti, degli amici, ma così non era , e lo capii ben presto! Per la verità non avevamo socializzato molto, ci chiamavano i milanesi con la puzza sotto il naso e questo mi avviliva. Per fortuna al nostro tavolo, all’ora del pranzo, sedeva la cosiddetta serpante del dirigente delle lavorazioni. Antonietta, questo era il suo nome, si era accorta che noi milanesi non eravamo poi tanto male e prendendo a cuore la situazione di Ermanno cercò di aiutarci. Aveva molta influenza Antonietta sul capo dei capi-reparto, era la tuttofare, come veniva definita dai più.
Infatti riuscì a far cambiare di reparto mio marito che finalmente potè uscire dal reparto più malsano della fabbrica e occuparsi dello stesso lavoro che svolgo oggi io.
Così andava e veniva da un reparto all’altro, attraversando i lunghi corridoi interni e quelli esterni. Al centro della grande piazza vi era una vasca con i pesciolini, vi erano anche panchine ed egli sostava di tanto in tanto, dando da mangiare ai piccioni e ai pesciolini e scambiava qualche parola con coloro che passavano di là, si stava davvero riprendendo bene in salute, a me sembrava e ne ero felicissima.
Era quella la cosiddetta miglioria prima della morte, ahimè, perch di lì a tre mesi mi lasciò sola e inconsolabile.
Al funerale sentii qualcuno che diceva che Ermanno era morto per causa di servizio e che la vedova aveva diritto a un risarcimento.
A quel tempo non capivo bene la questione, sa signora, io ho fatto la scuola elementare e di queste faccende non so nulla. Però qualche cosa incominciò a frullarmi nella mente e così incominciai pian piano a far domande a destra e a manca con il risultato che venivo sempre di più allontanata dalle colleghe ed evitata dai capi.
La disperazione per la perdita di mio marito in un primo momento mi prostrò ma poi incominciai a dirmi che non era giusto morire così giovani e che dovevo far conoscere al di fuori della fabbrica le condizioni impietose dei lavoratori.
Riuscii a parlare con altre operaie che avevano subito la stessa mia sorte e io non lo sapevo. C’era tanta ritrosia a parlare di certi argomenti, anche perché erano spaventate nel timore di perdere quei piccoli privilegi acquisiti faticosamente.
Seppi così che la Giovanna aveva un fratello operaio addetto alle officine meccaniche e che, dopo essersi fatto male ad una mano, anziché denunciare subito l’infortunio avvenuto sul luogo di lavoro, tamponò la fuoriuscita di sangue, fasciò la mano e continuò a lavorare. Il risultato fu che dopo qualche tempo gli amputarono tre dita e senza indennizzo alcuno poiché l’episodio non era stato a suo tempo segnalato al responsabile capo officina.
Ascoltando tutto questo si rafforzò in me il desiderio di continuare in ciò che mi ero prefissa e continuai imperterrita nell’opera di coinvolgimento del personale operaio affinché si lottasse unanimemente contro le ingiustizie i soprusi e far sì che le condizioni lavorative fossero migliorate.
Dovevamo metter fine, dicevo, a certi atteggiamenti schiavizzatori dei signori capi soprattutto nei confronti delle donne poco compiacenti.
Abbiamo la nostra dignità andavo quasi urlando durante la pause prandiale, dobbiamo difenderci e non certo lasciare che ci maltrattino e mortifichino., non è giusto, è disumano.
Zitta, zitta mi diceva qualcuna, vuoi farti proprio sentire? Non lo sai che a quel tavolo c’è lo spione, il ruffiano che va a riferire tutto al dirigente delle lavorazioni? Rischi di essere trasferita al reparto più brutto.
Non m’importa, rispondevo, è arrivata l’ora di parlare, ci saranno pure delle brave persone, non posso credere e non voglio credere che il mio Ermanno sia morto invano, così, per niente!”
Incominciò così l’ascesa social-sindacale di Ofelia che difendeva senza sosta i diritti dei più deboli, di coloro che subivano i torti senza parlare, ormai era diventata la paladina e il faro della classe operaia.
Purtroppo però era temuta dai responsabili perch stava diventando una vera e propria minaccia nel senso che al padrone faceva comodo una classe operaia ignorante dei propri diritti e quindi privi di quella consapevolezza che li avrebbe spinti a ribellarsi per reclamare il giusto dovuto.
Le venne assegnato il compito di cui si è scritto dianzi e Ofelia godeva della libertà di movimento per tenere le piccole assemblee nei bagni, negli spogliatoi nella mensa nei reparti tra un cambio turno e l’altro e si era negli anni sessanta.
Giuditta Abatescianni nata a Bari il 17 dicembre 1950.
Funzionario in pensione della pubblica amministrazione si dedica con passione a tutto ciò che la mette in comunicazione con il sociale.
La sua esperienza professionale nei primi quattordici anni si è svolta presso la manifattura tabacchi di Bari nel periodo post-sessantottino a contatto con le problematiche lavorative soprattutto delle donne. Nell’ultimo decennio si è occupata della trattazione del contenzioso penale relativo alle violazioni delle leggi doganali, attività questa che le ha permesso di toccare con mano la cruda realtà dei meno fortunati ed in particolar modo della vasta popolazione degli extra-comunitari.
Ha studiato lingue straniere, lettere e filosofia.