Le parole possono ferire, colpire, ma anche salvare, possono diventare la scintilla che fa partire un moto interiore per uscire da una situazione di violenza.
Questa non è una recensione, è la condivisione di una lettura e di ciò che mi ha scatenato dentro.
Il libro è Il canto delle balene di Giovanna Pastega, Laura Capone Editore.
Quando ci si accosta al tema della violenza contro le donne, è necessario essere capaci di empatia, riuscire a trovare le parole giuste, una sorta di grammatica che sappia tradurre sentimenti, sensazioni, pensieri, tra conscio e inconscio. Perché le parole possono ferire, colpire, ma anche salvare, possono diventare la scintilla che fa partire un moto interiore per uscire da una situazione di violenza.
“Nominare le cose” che accadono significa definirne i contorni, riconoscerle per ciò che sono. Così la violenza.
Condivido quanto scrive Giovanna Pastega:
“La violenza, qualunque volto abbia, qualunque forma assuma, i segni più grandi li lascia nell’anima. Le donne che sono state toccate dalla violenza più cruda, quella che corrode e annienta fino all’osso, finiscono tutte a un certo punto per perdersi, per non riconoscersi più, per annullarsi. Oltre al dolore delle botte e alla mortificazione delle parole in loro si diffonde un dolore più grande e profondo che non ha un nome, perché loro stesse non glielo vogliono dare. Ne hanno paura. È il dolore dell’oblio, della perdita di sé.”
“Ormai basta un niente” per farlo scattare, dice una delle protagoniste: in quel niente le donne vengono annientate quotidianamente, nel vano tentativo di non scatenare la tempesta e di arginarla.
“Dare un nome” significa guardare in faccia la realtà e riuscire a risignificare la propria esistenza per il futuro, che sia finalmente libero da quel vissuto. Certamente è un vissuto che non si può rimuovere mai del tutto, ma lentamente lo si può circoscrivere, lo si può adoperare come strumento di forza, dal momento che si intraprende una presa di coscienza e si intravede la possibilità di voltar pagina e ricominciare a ricostruirsi. Perché l’annientamento del sé è reversibile. Questo è uno dei messaggi più importanti di questo libro.
Ci sono momenti in cui la battaglia interiore è aspra. Una delle protagoniste del libro a un certo punto afferma:
“Lui è ciò che amo di più e ciò che odio di più al mondo… Vorrei avere la forza di cambiarlo, di aiutarlo… di interrompere questa catena, ma non so se ne ho più la forza… non so se ne sono capace…”
Una vera e propria tempesta, una oscillazione di pensieri che si infrangono dentro Ellen. C’è una sorta di separazione, di dicotomia interiore. Il non sapere che fare, cosa sia giusto o sbagliato. Quando ci si chiede perché tante donne resistono per anni in situazioni di violenza, pensate a quanto sia difficile vedere le cose con chiarezza, prendere decisioni, riconoscersi. Una donna divisa in due, spaccata a metà, questo è ciò che accade a chi subisce violenza. C’è tutto in questo pensiero che Giovanna Pastega ci mostra.
Il tratto distintivo della sua scrittura: entra in punta di piedi, racconta le donne con una sensibilità e una capacità rara di tradurre in poche parole il loro universo interiore. La sua prosa, che vede anche delle porzioni in versi, è lieve, adopera un tocco delicato per scrivere delle vite di queste donne. È uno sguardo che è come se volesse accompagnare le protagoniste e chi legge. Senti la vicinanza. Non risparmia e non sminuisce, non censura la realtà di chi vive una violenza. Senti il rispetto e mai il giudizio.
Non è un manuale contro la violenza, ma tra le pieghe delle storie di queste quattro donne si attraversano tutte le fasi del ciclo della violenza. Queste donne parlano ad altre donne: è come se in qualche modo volessero fornire la chiave per uscire dalla violenza, perché ciascuna donna possa ritrovarsi e ricominciare. Sono storie universali, ciascuna di queste donne ci mostra dei lati che appartengono anche a noi, dei tratti in cui riconoscersi. Mi sembra la formula giusta per parlare alle donne. Questo libro parla alle donne tutte, affinché siano consapevoli e re-agiscano o siano di sostegno a chi vive una esperienza di violenza.
Ma non si parla solo di donne. Emergono figure di uomini despota, ossessionati dal possesso, dalla gelosia, dal controllo, dominatori incontrastati delle vite delle donne. Tutto tranne che capaci di amare.
Emerge la violenza economica e l’umiliazione quotidiana che ne deriva. Piano piano viene meno l’entusiasmo e la voglia di fare. Fino a che ti fanno sentire una “cosa inutile”. Anche se si prova a reagire, sono tentativi vani, “risponde, argomenta, ma di fronte alle frasi secche e mirate di suo marito il muro delle sue convinzioni crolla”. Le parole per difendersi restano ingorgate in gola, vengono pronunciate ma sembrano inutili. Sono uomini che sviliscono le donne e le annullano. Anche perdere il lavoro diventa una colpa da rinfacciare continuamente per demolirle. Fino a fargli perdere la misura delle cose che accadono, fino a fargli credere “forse ha ragione lui”. Tutte le colpe vengono fatte precipitare su queste donne. E poi c’è la paura del giudizio da superare.
Emergono le ferite causate dalla violenza psicologica, una quotidiana sottrazione di forza vitale e di speranza, un lento annientamento della stima di sé, un precipitare nel vuoto di un abisso generato da questi uomini. Aspettando qualcosa che non viene. Perché sperare che cambino è una trappola.
Questi uomini non cambiano e soprattutto non possiamo cambiarli da sole. Per uscire da questi buchi neri non bastano semplicemente le proprie forze, occorre farsi aiutare.
C’è la solitudine da infrangere: ecco perché oltre al lavoro dei centri antiviolenza è necessario che vi sia anche qualcosa che le aiuti a non essere chiuse su se stesse. A volte avere dei luoghi “dedicati” in cui le donne possano incontrarsi, svolgere attività insieme, scambiarsi idee e informazioni, fare comunità: è il primo step per far scattare la scintilla per riacciuffare la propria vita, per trovare il sostegno necessario per affrontare i primi passi e uscire da un’esperienza di violenza. La libertà parte proprio da queste possibilità di potersi sentire ancora parte di una comunità, recuperare stima di sé e riconoscere quanto si è preziose e quanti pregi e capacità si hanno.
C’è una vita oltre la violenza, niente è perduto. Accompagnare le donne verso questa vita nuova è nostro compito e responsabilità. Aiutarle a perdonarsi, a lasciarsi alle spalle anni di soprusi e violenze, perché in alcuni casi si sentono colpevoli per non essersi opposte e non aver saputo dire di “no”: questi rapporti le hanno caricate ingiustamente di troppe responsabilità, sono state schiacciate da mille sensi di colpa.
Grazie a nome di tutte le donne, per aver dato voce alle donne. Per aver aperto un orizzonte diverso, di speranza, perché un futuro libero dalla violenza è un nostro diritto, perché riappropriarsi della propria esistenza è possibile. Non è vita cercare sempre un riparo, un modo per non subire l’ennesimo colpo. Un percorso lento, lungo, che significa in primo luogo riconoscersi, guardarsi dentro come se fosse la prima volta, ascoltando la voce che arriva da dentro.
“Il canto delle balene, un suono impercettibile, simile quasi ad un lamento, ad un canto accorato, emesso nelle profondità del mare ad una frequenza così bassa da essere da pochi udito, che diventa progressivamente un suono così forte da oltrepassare gli oceani e il tempo.”
Attraverso un flusso di autocoscienza queste donne recuperano se stesse, la propria voce e trovano la propria via d’uscita.
A noi il compito di ascoltare la loro voce, le loro parole, la loro storia, lievi ma che arrivano lontano se sappiamo e impariamo a farlo. A noi il compito di fare da eco e da amplificatori perché sempre più persone siano consapevoli.
“La violenza è una rete che ti mette in trappola, non comincia mai improvvisamente tutta assieme, non deflagra, ma si insinua un po’ per volta: qualche cattiva parola, qualche gesto ruvido e poi uno schiaffo… Se non scappi, se non ti salvi è perché… è perché… è perché senti di meritarla…”
“Lui aveva bisogno di me per sentirsi forte (…) tutte le volte che aveva paura, tutte le volte che la vita non gli offriva una cura”.
Riprendendo le parole del padre di una delle protagoniste, “tu sei libera di scegliere”… e allora “tornano le forze, la voglia di combattere per riavere la propria vita, per avere una vita.”
“Lo so che la mia sarà una lunga notte… non ci si libera facilmente del buio quando per così tanto tempo resta dentro di te. Ma sono determinata a trovare la mia luce, anche se spesso ho paura.
Ho perso gran parte della mia vita chiusa dentro un buco da cui non riuscivo ad uscire. E quando un buco è così profondo e nero da non permetterti di vedere più né la strada, né l’orizzonte, dopo un po’ ti abitui a quel buio, diventa una tana, finisci per sentirlo come parte di te, come fossero i tuoi occhi, il tuo destino… Insomma ti abitui al male, lo vivi come una pena da scontare…
Non è facile per me ora, dopo tanti anni, riuscire a camminare in una strada aperta.
Essere libera mi dà la vertigine… e ho molta paura, ma c’è ancora un tratto di strada per me e, adesso ne sono sicura, ho ancora voglia di percorrerlo.”
2 commenti
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Mi sono ritrovata in tante cose scritte da te e nel libro nei diversi spezzoni che citi, mi ci sono ritrovata proprio in virtù dell’empatia. Bellissimo post grazie.