Facciamo un po’ di chiarezza aull’assegno divorzile. Il matrimonio sciolto non dà diritto ad una rendita di posizione.
di Anna Paola Klinger
E’ da ieri – a metà pomeriggio – che i nostri telefoni, in studio, suonano come se fosse scoppiata la terza guerra mondiale.
Da quando è uscita la sentenza che “toglie gli alimenti” alle mogli divorziate, è tutto un pullulare di chiamate, ove disperate (“avvocato, cosa ne sarà di me?”), ove invece baldanzose (“la vedrà adesso, che si deve guadagnare il pane da sola”).
Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
La sentenza è certamente importante.
E’ importante soprattutto perché – finalmente – riporta la situazione al dato normativo.
Eh sì, perché la legge sul divorzio già disponeva che il Tribunale “dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”
Quindi, già il disposto letterale della norma obbligava il Tribunale a porre un assegno a favore del coniuge debole, una volta venuto meno il vincolo matrimoniale (parliamo infatti di divorzio e non di separazione), solo nel caso in cui lo stesso non avesse o non potesse procurarsi da sé i mezzi di sostentamento.
Cosa capitava, prima, tuttavia?
Che vi fosse ampia discrezionalità sul concetto di “mezzi adeguati”.
Adeguati rispetto a cosa?
E’ proprio su questo punto che interviene la sentenza di ieri.
Prima, molti Tribunali (non tutti, per la verità, e con cambio di rotta graduale verso i criteri attuali) ritenevano che andasse garantito al coniuge debole lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Il che, era impossibile.
Infatti, con un reddito che produce un certo tenore di vita per una famiglia, è impossibile portare due famiglie diverse al medesimo tenore.
Questo creava scompensi, o false aspettative.
Il criterio era utilizzato così perché, agli albori della legge (1970), vi era effettivamente un coniuge debole di solito la moglie, che non lavorava e non aveva mai lavorato.
Oggi la situazione economico sociale non è più quella e giustamente la Cassazione dice: “chi può mantenersi da sé, chi è in grado di lavorare, lo faccia”.
Il matrimonio sciolto non dà diritto ad una rendita di posizione. Nemmeno dà diritto ad un’integrazione allo stipendio.
Il senso del matrimonio è altro, è condivisione di vita: cessata quella, se i coniugi sono sani ed in grado di mantenersi, ognuno per la sua strada!
Ma vediamo questo, in pratica, cosa significhi.
Una signora che, nell’accordo familiare, si sia sempre dedicata alla vita domestica e all’accudimento dei figli, sebbene in salute, se divorzia a 50 anni difficilmente troverà lavoro.
In questo caso, l’obbligo di prestare il mantenimento rimane in capo al marito, sempre secondo le sue possibilità economiche.
Una signora, magari laureata, con un impiego a tempo indeterminato, che tuttavia guadagni meno del marito, non avrà diritto a chiedere l’assegno, se il suo stipendio le consente di mantenersi. E questo a prescindere dal tenore di vita migliore, goduto in costanza di matrimonio.
Rimane dunque il criterio della responsabilità familiare (il marito non potrò “disinteressarsi” completamente della sopravvivenza dell’ex moglie); ma viene meno il criterio dell’agio a favore di quello della reciproca indipendenza.
Naturalmente, la sentenza non tocca in alcun modo i diritti dei figli, ed il dovere dei genitori di mantenerli, ciascuno secondo le proprie possibilità.