Ma la professionalità esiste ancora?
Professionalità che non è solo competenza di una materia specifica, ma è il giusto mix di studio, esperienza, capacità, know how, buon senso, passione, metodo, empatia, etiquette.
Scrivo questo post per esigenza di condivisione e riflessione su un tema che sento molto e che oggi, dal mio personale punto di vista, è fortemente minato: essere professionali.
Non sto qui ad analizzare l’etimologia della parola ‘professionale’ per sostenere le mie considerazioni, né a sviscerare il contenuto che essa dovrebbe esprimere.
Qui pongo solo una domanda, ma la professionalità esiste ancora?
Professionalità che non è solo competenza di una materia specifica, ma è il giusto mix di studio, esperienza, capacità, know how, buon senso, passione, metodo, empatia, etiquette.
Perché affronto questo argomento? Perché proprio di recente sono stata protagonista di due episodi che mi hanno lasciato davvero a bocca aperta.
Non voglio fare quella che dice…’eh, ai miei tempi…’ o ‘questo accade perché non hai fatto la gavetta come me’. Qui non è questione di generazioni, né di vissuto. Qui c’è qualcosa di più profondo che si è perso per strada, il rispetto.
Sicuramente se avessi adottato uno dei comportamenti che oggi vi descrivo nei contesti in cui ho lavorato nel corso della mia carriera sarei stata letteralmente defenestrata, senza possibilità di appello.
Caso 1. Ingaggio due esperte in media relation (così mi sono state presentate e si sono vendute…e aggiungo ‘vendute bene’) per curare le attività di ufficio stampa per un progetto.
Tralascio i dettagli. Arriviamo al dunque.
Chiedo, come si fa di consuetudine, di ricevere a ridosso della conferenza stampa la lista delle adesioni per capire che redemption ha l’evento e se si può intensificare le azioni di push negli ultimi giorni.
La conferenza era il giovedì, avevo chiesto la lista per il venerdì precedente.
Non ricevo nulla, se non all’alba delle 21 del venerdì sera un laconico messaggio su Whatsapp dove mi viene fatto elenco delle testate.
Resto basita. Ma come si può mandare a un cliente un feedback così formulato?
Perdonate, forse sono effettivamente vecchia, ma io mi sarei aspettata una mail con due righe di commento e un allegato che elencava le testate con tanto di nome e cognome del giornalista.
Secondo voi è chiedere troppo?
Forse sì, forse di questi tempi dove tutto è veloce, dove il tempo è tiranno e siamo nell’epoca del ‘sto facendo mille cose’ quelli che si definiscono ‘professionisti’ utilizzano questi mezzi e metodi.
E quando ho gentilmente fatto notare che avrei gradito una mail la risposta è stata arrogante, a tratti scazzata, e comunque insoddisfacente.
E qui non si può nemmeno trovare l’attenuante del…’ma forse lo ha fatto perché siete in confidenza’.
No, non lo eravamo e se anche fosse stato così quando si lavora si deve in ogni caso avere un approccio formale, soprattutto se sono coinvolti anche altri attori.
Questo episodio mi ha fatto pensare che gli anni che ho trascorso in azienda e agenzia sono stati davvero preziosi. Perché questi contesti sono delle vere palestre.
Qui impari come muoverti nel mondo, come approcciare diverse figure (il cliente, il partner, il fornitore, il giornalista…), l’attenzione che bisogna mettere in ogni cosa che fai (rileggere una mail almeno una volta ad esempio…).
Io sono stata abituata a immaginare sempre l’effetto di ogni mia azione, a prevedere almeno due diverse reazioni e a ipotizzare lo sviluppo dell’una e dell’altra strada.
Se il cliente risponde A, si va a destra, se risponde B, si va a sinistra…e così via.
Detta così sembro matta, lo so, ma ragazzi questo in soldoni è fare strategia.
Aggiungo che quanto è accaduto mi ha portato inoltre a riflettere quanto conta la prima impressione e di quanto oggi dare un’immagine di sè diversa dalla realtà diventa un boomerang se non si è coerenti e soprattutto se dietro la forma non c’è la sostanza…E’ proprio il caso di dire #iosonociòchevedi
Caso 2. Mi relaziono con una persona che sciorina un curriculum di tutto rispetto nel ruolo di Social Media Manager, con referenze di clienti molto importanti.
Ottimo, è il mio uomo, penso. Che bello poter delegare questa attività a qualcuno che sa dove mettere le mani e liberarmi così anche del pensiero di dover gestire questo task.
Diciamocelo, me la sono tirata.
Gli dico ok, proviamo a partire. Mandami il piano strategico e una bozza di calendario editoriale.
Ricevo una mail (si dai…almeno la mail è arrivata) ma ahimè priva di sostanza, di contenuto.
Volevo piangere.
Non c’era sforzo di sviluppare una strategia di comunicazione declinata sui mezzi social, di realizzare un piano editoriale con un senso compiuto, ma soprattutto – e qui ho proprio ceduto allo sconforto – emergeva con evidenza che dall’altra parte c’era una persona con uno spessore culturale e un padronanza della lingua italiana davvero basic (con tanto di refusi ogni 5 parole).
Forse sono io troppo pretenziosa, forse cerco negli altri la perfezione che chiedo a me stessa, sbagliando forse, ma io non faccio mai niente se non sono ‘studiata’, se non ho la certezza di conoscere la materia, sia dal punto di vista del contenuto che dei tecnicismi.
Essere Social Media Manager non significa solo conoscere tutti i segreti di Facebook o delle altre piattaforme.
Ci vuole anche una sensibilità, un background che permettano di cogliere l’anima di un brand, di un progetto e riuscire a promuoverli in mondo coerente, con contenuti di valore e soprattutto con una elevata capacità di scrittura. Non basta una bella foto a fare la differenza.
Non si può essere avulsi dal mondo che ci circonda e non attingere a reference che appartengono ad altri mondi, affini o tangenti a quello del brand o del progetto di cui ci stiamo occupando.
Se gestisco la pagina Facebook di una marca di birra non è che pubblico solo le foto della bottiglia.
Magari spremo le meningi per inserire qualche post evocativo, che si ispira al mondo dell’arte, della musica perché hanno qualcosa in comune. Ovviamente sto estremizzando ma è per far capire il senso di ciò che sostengo.
Fortunatamente sono circondata anche da tante persone che invece hanno professionalità da vendere e che, alla base, sono soprattutto belle persone. Con profonda umanità, umiltà, passione, generosità e grande rispetto per gli altri.
Sì perché se devo proprio trovare un comune denominatore nelle figure che reputo non professionali è proprio l’assenza di questi prerequisiti.
Forse la prossima volta che cerco qualcuno con cui lavorare più che il curriculum dovrei chiedere di uscire una sera a cena, forse così riuscirei a capire meglio innanzitutto che individui sono, quanto hanno dentro e quanto hanno da condividere….e solo al dessert chiedere anche che lavoro fanno!