È ormai noto come la violenza nei confronti delle donne si esprima in forme più o meno visibili e che non sia possibile relegarla ad una sfera puramente fisica.
La maggior parte delle difficoltà che si riscontrano lungo il percorso di uscita da una situazione di violenza derivano non solo dagli effetti psicologici dell’abuso, ma anche dall’assenza di risorse cosiddette esterne, rappresentate non solo dalle relazioni interpersonali che hanno resistito all’isolamento patito, ma anche dagli strumenti di natura pratica ed economica che semplificano il conseguimento di un’indipendenza rispetto al proprio partner. Proprio quest’ultimo aspetto è spesso sottovalutato nell’analisi delle modalità attraverso le quali si esprime la violenza, complice in primo luogo una cultura ancora fortemente patriarcale quando si parla di gestione del denaro all’interno della famiglia.
Consultando il Gender Equality Glossary dell’EIGE, cioè l’European Institute of Gender Equality, si può trovare una definizione dettagliata del concetto di violenza economica: “economic violence refers to acts of control and monitoring of behaviour of an individual in terms of the use and distribution of money, and the constant threat of denying economic resources”, e viene chiaramente specificato che questo meccanismo può tradursi nell’impossibilità di accedere ai servizi sanitari di cura o di tentare percorsi professionali in autonomia. Nulla di così diverso da una schiavitù.
Nel documento programmatico “Ending Violence Against Women and Girls” pubblicato nel 2013 da UNWomen, allo scopo di identificare le diverse espressioni della violenza sulle donne, comprendere il fenomeno e cercare una soluzione, si è evidenziato come questo fenomeno sia caratteristico di due fasi del “ciclo di vita della violenza”, quella dell’età riproduttiva di una donna e quella della vecchiaia, chiaramente in concomitanza con il desiderio di realizzazione economica e professionale e con maggiori necessità in termini di cura e assistenza. È chiaro come quindi anche questa forma di violenza abbia delle radici culturali e sociali: infatti restano ancora tenui le chances per una donna di conseguire in giovane età un’autonomia economica, complici spesso relazioni che persuadono la stessa a rinunciare a possibilità di carriera a garanzia del presunto benessere del rapporto; in alcune parti del mondo, poi, il diritto ad acquisire la terra e forme di proprietà è ancora limitato ai soli uomini e alla violenza economica può essere associata una preesistente forma di violenza fisica e/o psicologica che ne rende difficile l’identificazione; infine, permane la sensazione che l’uomo sia cacciatore e la donna debba esser dedita a funzioni di cura, relegata dunque ad un ruolo di apparente minore responsabilità all’interno della coppia ma anche condizionata dal partner nella gestione del bilancio familiare. Tutti questi elementi concorrono a spiegare come mai la violenza economica sia così difficile da identificare e contestualizzare: resta un fenomeno poco denunciato e – al netto di un’esperienza di abusi fisici e maltrattamenti di vario tipo – sembra essere considerato meno pericoloso di altri. Questa sottovalutazione del fenomeno si accompagna a scarsi strumenti a tutela della donna, che il più delle volte deve da sola trovare la forza di ricostruire contatti e possibilità di crescita professionale per rimettersi in piedi dopo mesi o anni di maltrattamenti. È innegabile l’aiuto prezioso dei Centri Antiviolenza che consentono alle donne di recuperare la sicurezza di sé e la consapevolezza necessaria a credere nuovamente nel futuro, così come utile è il lavoro svolto dalle agenzie di formazione professionale e dai tanti corsi che permettono di acquisire competenze pratiche utili a trovare la propria strada, ma non si può che evidenziare una scarsa conoscenza delle dinamiche della violenza economica, un riconoscimento minimo degli aspetti culturali che ne condizionano la diffusione e dunque l’assenza di strumenti efficaci di contrasto a questa forma di abuso. Come si può uscire da una relazione dannosa se non si hanno le risorse economiche per scappare? Come si può evitare di essere dipendenti da un uomo se non si hanno ancora le loro stesse opportunità di crescita professionale? Come si può rivendicare il diritto a scegliere come e con chi vivere se in larga parte le uniche opzione disponibili si rivelano precarie e insoddisfacenti? L’assenza di sicurezza in ambito lavorativo rende inevitabilmente le donne più soggette a forme di dipendenza economica, e dunque di schiavitù.
Riconoscere la violenza economica non è facile, ma devono far riflettere alcuni atteggiamenti inequivocabili: se il partner non vuole che lavoriate, vi limita nella ricerca del lavoro o tenta di inibire qualsiasi possibilità di carriera, sta probabilmente cercando di dirvi che vuol disporre di voi e decidere per voi; se il partner vive una situazione di disagio economico e non vi incoraggia a contribuire al management familiare poiché reputerebbe tale soluzione degradante o al contrario sfrutta smisuratamente e per propri fini le risorse da voi faticosamente guadagnate, si sta verificando una forma di violenza economica finalizzata a far ricadere su di voi ogni disagio e sentimento di rabbia, coinvolgendovi in quella che è una sua sofferenza psicologica. Se il partner vi impedisce di riprendere gli studi, di recarvi dal medico quando più ne avete bisogno; se ogni mese centellina il denaro che potrete personalmente gestire come se foste una figlia a cui dare la paghetta, se siete sottoposte a rigidi controlli quando decidete come spendere il vostro denaro o come far fruttare il vostro patrimonio evidentemente il partner sta cercando di controllarvi e sarebbe opportuno riflettere sulla qualità della relazione e sulle conseguenze di un abuso del genere. Gli ultimi dati Istat, resi noti in occasione di una conferenza svoltati a Roma il 28 Marzo 2017, “La violenza contro le donne: i dati e gli strumenti per la valutazione della violenza di genere”, rivelano come, sebbene vi sia stato un calo relativo ad alcune forme di violenza, quella economica tocchi ancora punte del 4.6%, e il legame con gli alti livelli di disoccupazione femminile risultano innegabili.
Chiaramente questo deve spingerci a riflettere sulla necessità di ripensare il mercato del lavoro, sia dal punto di vista occupazionale che in merito al conseguimento di una parità salariale, elementi che pongono le donne in una condizione di netto svantaggio sociale.