Toponomastica femminile ha recentemente ampliato la mostra Donne e lavoro con una serie di pannelli sulle sportive.
di Nadia Boaretto
Toponomastica femminile ha recentemente ampliato la mostra Donne e lavoro con una serie di pannelli sulle sportive. Le tavole, esposte permanentemente al nuovo centro imolese di Ortignola, abbracciano vari aspetti del rapporto tra genere e sport: dalla storia delle Olimpiadi alla presentazione di protagoniste indimenticabili, dall’analisi del gap di genere ai riconoscimenti toponomastici.
E sarà proprio la città di Imola a ospitare il prossimo convegno di Toponomastica femminile (26-29 ottobre), cui ha assegnato il titolo di Donne in pista.
Ondina Valla. Intitolazioni a Bologna, Potenza, Viterbo.
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Antonia Panepucci. Alpinista. (Assergi, AQ. Foto di Paolo Rapone)
Proponiamo qualche immagine della mostra, associata alla traduzione dell’articolo di Parmalien “Les femmes aud Jeux olimpiques” pubblicato sull’Enciclopédie pour une histoire nouvelle de l’Europe.
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Pannello Indimenticabili. Nadia Comăneci
Le donne ai Giochi Olimpici
Nel 1894 Pierre De Coubertin riaccende la fiaccola delle Olimpiadi, celebrazione della virilità sportiva; le donne, ammesse a partecipare nel 1900 alle prove considerate compatibili con la loro femminilità e fragilità, rimangono tuttavia escluse dalle gare fondamentali dell’atletica. Su iniziativa della francese Alice Milliat e della Federazione Sportiva Femminile Internazionale (FSFI), comincia un braccio di ferro con il Comitato Internazionale Olimpico (CIO). Per metterlo di fronte al fatto compiuto, dal 1922 al 1934 si organizzano delle Olimpiadi femminili. A poco a poco la presenza delle donne appare più marcata, ma lo squilibrio sessista, anche in seno al CIO, domina per tutto il XX secolo. Per combattere questi scompensi di genere, la Carta Olimpica rende obbligatoria dal 2007 la partecipazione delle donne in ogni sport; nel 2014 la Commissione europea difende l’eguaglianza nello sport e il CIO inscrive la parità nell’agenda olimpica 2020.
Pannello Indimenticabili. Suzanne Lenglen
Quando, nel 1894, il barone francese Pierre de Coubertin (1863-1937) durante un congresso alla Sorbona rifonda i Giochi Olimpici, si tratta di riportare in auge il mondo antico attraverso il concetto di virilità, un’unione di «muscoli e cervello» di cui soltanto gli uomini sarebbero portatori. Non c’è dunque bisogno di escludere in modo formale le atlete, dato che la loro assenza si spiega da sé: non sono concepite in quanto inconcepibili. Ecco quindi che i primi Giochi Olimpici del 1896 si svolgono senza di loro, ma non senza sollevare il loro scontento. Ne consegue che nel 1900, malgrado l’opposizione misogina del fondatore, ampiamente condivisa in tutta Europa, i Giochi Olimpici di Parigi contano 22 atlete (francesi, belghe, italiane, russe ecc.) su un totale di 997 partecipanti, con i due sessi concorrenti separatamente. La tennista britannica Charlotte Cooper (1870-1966) è la prima a conquistare la medaglia d’oro, ma sempre nella logica degli sport “muliebri” (tennis, vela, croquet, equitazione, pattinaggio artistico), nati come passatempi dell’aristocrazia senza compromettere la femminilità e la fecondità, rispettando al contempo la decenza. Inoltre è da evitare ogni sforzo violento e continuativo, una esigenza incompatibile con lo sport di alto livello. Ed è nel rispetto di questi canoni che la campionessa del mondo di pattinaggio artistico, la britannica Madge Syers (1881-1917), si aggiudica l’oro a Londra nel 1908, e il bronzo in coppia con il marito, dopo aver gareggiato indossando una gonna lunga fino al polpaccio. Altra sua compatriota non meno illustre è Queenie Newall (1854-1929), che si classifica prima nel tiro all’arco su 25 partecipanti britanniche, francesi e statunitensi.
Nonostante l’entusiasmo popolare gli organizzatori dei Giochi Olimpici continuano a ostacolare l’accesso femminile. Porre fine a questa ingiustizia diventa la battaglia ingaggiata a partire dal 1917 dalla pioniera del canottaggio, Alice Milliat (1899-1938), presidente del club polisportivo femminile Femina Sport (1912) e tesoriera della Federazione francese dello sport femminile (1917). Milliat esige l’ammissione delle donne a tutte le discipline dei Giochi Olimpici, ricordando che il loro ruolo durante la Prima Guerra mondiale contraddice la teoria della «fragilità naturale» sostenuta dagli avversari. Nel 1919 il Comitato Internazionale Olimpico (CIO), di composizione interamente maschile, preclude loro gli sport più emblematici ai Giochi Olimpici di Anversa. In tale occasione la stampa si mostra meno interessata alla medaglia d’oro della pattinatrice svedese Magda Julin (1894-1990) che alla sua «lunga veste di velluto nero ravvivata da un colletto bianco». Eppure compaiono grandi figure, come la francese Suzanne Lenglen (1899-1938), soprannominata la «diva del tennis».
La gara degli 800 metri non fa in tempo ad aprirsi alle donne e a essere vinta nel 1928 da Lina Radke (a destra nella foto), che subito viene vietata, e tale rimane fino al 1960, con la motivazione che è inadatta al fisico femminile. La tenace Alice Milliat, in contatto con altre sportive europee, nel 1921 crea la Federazione Sportiva Femminile Internazionale (FSFI). Nel 1922 questa instancabile militante decide di ridar vita a Parigi ai Giochi Olimpici femminili di Hera, fondati da sedici donne nel VI secolo avanti Cristo; le 77 partecipanti provengono principalmente da Gran Bretagna, Svizzera, Italia, Norvegia e Francia. La britannica Mary Lines (1893-1973) si segnala nella corsa e nel salto in alto, con 3 medaglie d’oro, 2 d’argento e 1 di bronzo. A seguito della reazione virulenta dello svedese Johannes Sigfrid Edström (1870-1964), presidente della Federazione internazionale dell’atletica, Alice Milliat accetta di sostituire l’aggettivo «olimpici» con «mondiali». Mentre ai Giochi Olimpici del 1924 le donne gareggiavano in un numero limitato di sport ed erano soltanto 13 contro 245 uomini, due anni dopo, ai giochi femminili di Göteborg (27 agosto 1926), dietro le bandiere di dieci nazioni sfilano nuotatrici, tenniste, schermitrici, lanciatrici del disco, applaudite da 8000 spettatori. Si fanno notare in particolare le performance della polacca Halina Konopacka (1900-1989), che nel lancio del disco raggiunge 37,71 metri, e della francese Marguerite Radideau (1907-1978), che effettua la corsa delle 100 iarde, equivalente ai 100 metri, in 12 secondi. Questi risultati brillanti e la sostituzione di De Coubertin nella direzione del CIO nel 1925 permettono il vero ingresso delle atlete nell’arena olimpica durante i giochi estivi del 1928. Ad Amsterdam le sportive corrono per la prima volta nei 100 metri, 4 volte nei 100 metri, 800 metri, salto in alto. L’Unione sovietica, che ha sempre rifiutato di partecipare ai Giochi Olimpici, in quello stesso anno istituisce a Mosca il loro corrispettivo «proletario», la Spartakiade, aperta alle donne.
Mentre le femministe europee tendono a considerare una rivendicazione accessoria la partecipazione femminile senza restrizioni agli sport e ai Giochi Olimpici, le inglesi quell’anno boicottano la gara per protestare contro l’atteggiamento antifemminista del nuovo presidente, il belga Henri de Baillet-Latour (1876-1942). Si ribellano inoltre alle incessanti critiche del mondo sportivo e degli organi di stampa, che umiliano la record-woman degli 800 metri, la tedesca Karoline Radke-Batschauer nota come Lina Radke (1903-1983), accusandola di aver vinto senza grazia, a fianco di «povere donne», incapaci di raggiungere il livello necessario a causa della loro costituzione fragile e della mancanza di allenamento.
Il CIO, definendo la corsa uno «spettacolo penoso» – in ciò smentito dalla versione filmata – vieta questa gara alle atlete, una messa al bando che durerà fino al 1960. In opposizione a questo tentativo di tenere sotto scacco lo sport femminile, la FSFI organizza dei nuovi giochi a Praga nel 1930. Il loro successo sportivo e mediatico costringe il CIO a proporre delle riforme, ma a condizione che i giochi femminili cessino. La FSFI risponde incitando le atlete ad abbandonare i Giochi Olimpici per dedicarsi alle Olimpiadi femminili che ospitano «tutti i tipi di attività sportive femminili». Di fronte a un nuovo rifiuto, nel 1934 a Londra si tengono gli ultimi giochi femminili. Dopo la scomparsa dalla scena della Milliat per motivi di salute, l’evoluzione della mentalità e la diffusione dello sport femminile fanno vacillare a poco a poco le resistenze. Lentamente i Giochi Olimpici si aprono alle donne (13% a Tokyo nel 1964, 23% a Los Angeles nel 1984), grazie anche alla presenza delle sovietiche a partire dal 1952, anno in cui l’equitazione vede gare individuali di genere misto. Bisognerà attendere i decenni 1970 e 1980 perché le direttive dell’ONU, sostenendo lo sport come favorevole alla salute e alla caduta degli stereotipi sessisti, incoraggino l’ingresso delle atlete nei Giochi Olimpici.
Benché in ogni sport permangano alcuni pregiudizi di genere, si constata che fino al 1980 lo sci contava il maggior numero di donne, detronizzato poi dal tennis, che tornava ai Giochi Olimpici dopo une eclisse durata dal 1924; nel 1990 l’atletica si piazzava solo al decimo posto, mentre gli sport equestri mantenevano la quarta posizione. Comunque dal 1991 ogni nuova disciplina dei Giochi Olimpici deve obbligatoriamente includere delle gare femminili, tant’è che nel 2012, a Londra, erano presenti per il 44%.
Pannello Indimenticabili. Josefa Idem
L’attenzione all’equilibrio di genere è rispettata sempre più nella struttura del CIO: formato esclusivamente da uomini fino al 1981 e maggioritario maschile fino al volgere del secolo, dal 2007 dichiara attraverso la Carta Olimpica: «Il ruolo del CIO è incoraggiare e promuovere le donne nello sport, a tutti i livelli e in tutte le strutture, con l’obiettivo di realizzare il principio di parità fra uomini e donne» (Carta Olimpica 2015, Regola 2, paragrafo 7). L’Unione europea approva questo orientamento già insito nella propria policy: la Commissione europea dopo aver organizzato nel dicembre 2013 a Vilnius la conferenza sulla Gender Equality in Sport, nel 2014 pubblica gli orientamenti strategici per la parità nello sport. Quello stesso anno, l’undicesima raccomandazione del CIO (allora per un terzo femminile) inserita nell’agenda olimpica 2020 fa della parità un obiettivo.
In questa logica la rivendicazione maschile a gareggiare nella ginnastica ritmica e nel nuoto sincronizzato, respinta nel 2012, sarà dunque riesaminata?