I nostri giovani, le ragazze che un domani saranno donne, tutti sono oggi resi fragili da una società che si nutre spesso di relazioni familiari ed extra-familiari malate. Le conseguenze psicologiche degli abusi e della concezione errata dell’amore e dell’affetto saranno avvertite per sempre.
Un uomo di 39 anni ha abusato della figlia di 13, mettendola incinta e costringendola successivamente ad abortire. La storia non è recente, nonostante i nuovi sviluppi. I fatti si sono infatti verificati due anni fa nel riminese e oggi si parla del processo a carico di due medici di una clinica privata, forse compiacenti, che avevano sostenuto di aver eseguito l’aborto sulla minorenne senza l’autorizzazione della madre. Questa storia è tremenda, crudele e lascia una profonda amarezza. Si è consumata in silenzio una violenza che lascerà inevitabilmente e per sempre un segno. È stata deliberatamente interrotta un’esperienza di crescita e di maturazione.
Il padre, sebbene si faccia fatica ad usare questo termine, era un alcolista già condannato precedentemente per reati legati alla droga. Scoperta la gravidanza della figlia, si è rivolto ad un consultorio pubblico per ottenere l’interruzione volontaria di gravidanza, rifiutata perché assente all’epoca il consenso della madre, obbligatorio ai sensi dell’art. 12 della L. 194/78: “Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l’interruzione della gravidanza è richiesto l’assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. […]”
Non soddisfatto, il padre si è rivolto ad una struttura privata che, senza porsi troppe domande, ha consentito all’uomo di ottenere l’IVG senza il consenso della madre, fornendo successivamente un certificato di avvenuta interruzione di gravidanza, presentata dall’uomo al consultorio per richiedere un’ecografia di controllo. Dall’esame la giovane è risultata ancora incinta, e questa volta con l’assenso della genitrice, la giovane ha effettuato l’aborto. La scoperta dello stupro è avvenuta solo in seguito, con l’esecuzione di un test del DNA sul feto. L’uomo, dopo aver tentato la fuga all’estero, è stato arrestato e condannato nel 2016 a 16 anni di carcere, lasciando però ancora aperto il processo contro i due medici della clinica del cui esito saremo informati solo quando tutto sarà finito.
E senz’altro tutto sarà finito solo per loro, perché intanto la giovane starà ancora cercando di convivere con quei ricordi, ricostruendo pian piano la vita che le era stata troppo presto rubata.
Questa storia ha molto da raccontare. Ci racconta come nascere femmine in questo mondo, in questa società, sia ancora tremendamente difficile. Recentemente, a Borgomanero, un altro uomo è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale a danno delle figlie, stupri che sono stati perpetrati nel silenzio e nella minaccia di ritorsioni per oltre dieci anni. E storie come queste non sono rare. Basta fare piccole ricerche sul web per farsi un’idea, seppur vaga, sulla diffusione del fenomeno.
I nostri giovani, le ragazze che un domani saranno donne, tutti sono oggi resi fragili da una società che si nutre spesso di relazioni familiari ed extra-familiari malate. Le conseguenze psicologiche degli abusi e della concezione errata dell’amore e dell’affetto saranno avvertite per sempre.
Il pensiero che mi attraversa la mente è uno soltanto. Se non fosse per il supporto di reti sociali e di volontariato, la nostra società non sarebbe in grado di far fronte a drammi di questo tipo. Il cambiamento culturale che potrebbe aiutarci a contenere episodi simili è ancora molto lontano dall’essere realizzato, e la politica è sorda di fronte alla richiesta di trasformazione di una società maschilista in una egualitaria che punti a proteggere la donna e il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza dalle violenze e dalle discriminazioni a cui sono soggetti.