El Salvador è uno dei pochi paesi ad oggi non dotato di strumenti disciplinati dalla legge a tutela del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Per quale motivo?
In più occasioni abbiamo avuto modo di riflettere su quale sia la situazione nel nostro paese quando si parla di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e di conseguenza di tutela della salute riproduttiva delle donne, sia prima che dopo il concepimento. Gli aspetti critici sono molti, e l’applicazione della legge è compromessa in gran parte del paese, ma non possiamo sottovalutare quali e quante lotte siano state portate avanti per garantire questo diritto, per quanto imperfettamente tutelato.
In altre parti del mondo, la situazione è anche peggiore. Non è una consolazione guardare a “chi sta peggio”, e non è senz’altro una gara, ma è comunque utile a non dare per scontati i nostri diritti, perché così come sono stati ottenuti possono essere persi. Mi viene in mente il caso eclatante di El Salvador, paese che ha alle spalle un passato poco glorioso sul fronte della salvaguardia dei diritti umani, come dimostra la triste storia di Marianela Garcia Villas, attivista e politica assassinata nel 1983, a 34 anni, mentre indagava per conto della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani sull’uso di armi chimiche da parte dell’esercito salvadoregno. Ebbene, El Salvador è uno dei pochi paesi ad oggi non dotato di strumenti disciplinati dalla legge a tutela del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Per quale motivo? Il diritto alla vita – un diritto fondamentale – è costituzionalmente tutelato a partire dal momento del concepimento, e pertanto qualsiasi sua violazione costituisce reato. Non sono rari i casi di inchieste, interrogatori e accuse nei confronti di donne che hanno dovuto ricorrere all’aborto, anche solo per veder salva la propria vita. Ha fatto molto discutere il caso di “Beatriz”, nome fittizio di una donna affetta da una grave forma di lupus eritematoso che ha “dovuto” portare a termine la gravidanza, nonostante corresse il rischio di morire in ospedale. A quasi nulla è valso il ricorso dinanzi alla Commissione Interamericana sui Diritti Umani, né in seguito l’intervento della Corte, dal momento che la storia si è risolta solo con un cesareo d’urgenza a cui il feto non è sopravvissuto. Le donne in El Salvador rischiano una pena dai 2 agli 8 anni di reclusione, senza tener conto di eventuali aggravanti e altri capi di accusa.
Ma cosa accade in altre parti del mondo? Se consideriamo il caso del Messico – ad esempio – in luogo di una legge tutto sommato non molto dissimile da quelle di altri stati americani ed europei, che depenalizza l’aborto a seguito di stupri, inseminazioni non richieste, azione colposa e/o rischio di vita per la madre, il problema principale resta la prassi diffusa tra le forze dell’ordine e il personale sanitario: è totalmente assente un supporto psicologico e talvolta medico/infermieristico per le donne che scelgono o sono costrette a ricorrere ad un’interruzione volontaria di gravidanza.
Vi sono poi paesi che invece risentono fortemente di pressioni di ordine etico-religioso, come la Polonia. Originariamente l’obiettivo della legge adottata nel 1967 era depenalizzare l’aborto, ma le ricorrenti pressioni del mondo cattolico hanno indotto continui ripensamenti, sino ad arrivare ad una legge che cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, tutelando la donna se a rischio di vita, ma non stabilendo ad esempio quali siano le azioni contrarie alla legge tali da legittimare il ricorso all’aborto: si parla di stupro, di violenze domestiche, di cosa? Il testo della legge non è chiaro in tal senso, il che ne rende l’applicazione molto più complessa.
Vi è poi il Giappone che ha sdoganato il tema dell’aborto, adottando il “Maternal Health Protection Law”, che consente l’interruzione volontaria di gravidanza in caso di violenza sessuale o grave rischio di vita per la gestante, ma anche per motivi di ordine psicologico e/o economico. Pare tuttavia che il disagio demografico, determinato dal progressivo invecchiamento della popolazione nipponica, stia scoraggiando l’uso di contraccettivi, e che infine sia fortemente consolidato il culto nei confronti del bambini mai nati, frutto forse del senso di colpa maturato a seguito di un aborto ma anche a causa del retroterra culturale che sin dall’epoca della Restaurazione Meiji ha minato la possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza, essendo considerata la maternità il più alto livello di gratificazione nella vita di una donna nonché simbolo di lealtà nei confronti dell’imperatore.
Sarebbe prezioso proseguire con una disamina delle diverse tradizioni e legislazioni in materia di IVG, ma quello che in questo momento mi interessa evidenziare è come troppo spesso si diano per scontate vittorie e conquiste che possono essere preservate solo con un costante impegno.
Qualche giorno fa, parte del mondo politico salvadoregno ha accusato di eccessiva ingerenza in questioni nazionali il senatore spagnolo José Antonio Rubio, il quale ha soltanto candidamente affermato come sia ora di depenalizzare l’IVG in El Salvador, per restituire alle donne e alla loro salute il giusto valore. E non vanno dimenticate le manifestazioni popolari e gli interventi di ONG come Amnesty International che ritengono El Salvador un paese pronto al cambiamento.
Il cambiamento ha bisogno di essere alimentato, sempre. E quando non è possibile scendere in piazza, o quando i nostri rappresentanti non parlano a sufficienza per noi e di noi, occorre intervenire personalmente, tenendo puntati i riflettori sui fatti di cronaca e sulle violazioni dei diritti umani. Favorire il cambiamento e preservarlo significa lavorare concretamente su proposte, su progetti e su idee che diano un contributo al dibattito politico, troppo spesso sovrastato da riflessioni di ordine morale e culturale.