La parità di genere in Italia è un rapporto 40-60 dei capilista e l’alternanza di genere nel listino e nei collegi. La parità è un belletto da usare una tantum per dare la parvenza di una società che aspira e lavora per l’eguaglianza degli individui.
La parità è diventata la parola “mamma” incastrata a forza in un discorso politico e una fantastica cascata di bonus. La parità è richiamare le donne solo sotto elezioni. La parità costruita dal linguaggio e dal racconto politico è tutto il fumo che siamo state costrette a respirare sinora. Alcune ancora fanno fatica a capire che dovremmo essere passate da un pezzo dalle quote rosa da riserva alla democrazia paritaria. Tutto il fumo che ci sottrae diritti e ci porta indietro. Basta vedere quanto male siano ridotti i servizi consultoriali pubblici. Che poi c’è chi sostiene che alla fin fine non possiamo farci niente e che le alternative ci sono. Ma davvero ci siamo arrese a questa deriva che non vede nessun desiderio di opposizione?
Ecco, mi piacerebbe sapere cosa sarebbe successo alla donna licenziata al rientro dalla maternità a Grassobbio alla Reggiani Macchine se non ci fosse stata la pronta reazione e solidarietà dei suoi colleghi. Ve lo dico io: non ci sarebbe stata la promessa dell’azienda di procedere a un ricollocamento e tutto sarebbe passato sotto silenzio. Nessuno se ne sarebbe occupato, come accade nella stragrande maggioranza dei casi di discriminazioni di genere.
Torno a parlare sui temi del lavoro dopo aver pubblicato questo pezzo.
Il 2 giugno sull’inserto milanese del Corriere ho letto un articolo su quanto possa diventare ostile il luogo di lavoro al rientro della maternità. Ce ne parla Marzia Pulvirenti, responsabile del Centro donna della CGIL a Milano, che avevamo incontrato lo scorso novembre per parlare di molestie sul luogo di lavoro. Un clima insopportabile al rientro in ufficio, mansioni svuotate o modificate fino all’assurdo, incarichi fittizi, tempi infiniti di assegnazione a nuovi progetti, scrivania e materiali di lavoro scomparsi, rimproveri, richiami, pesanti critiche, per alcune nemmeno un bentornata o congratulazioni per il bambino. Fino a toglierti premi di produttività (non è legale ma accade) e qualsiasi ipotesi di crescita professionale. Si viene tagliate fuori nonostante le competenze, l’esperienza, solo perché chiedi un paio d’anni senza trasferte fuori regione o internazionali. C’è chi per questo arriva a somatizzare queste pressioni, alcune iniziano a sperimentare attacchi di panico e crisi depressive. C’è chi ti risponde che basta organizzarsi e attrezzarsi per conciliare, occorre scegliere altrimenti sei fuori. E poi non tutti gli ambienti sono solidali, spesso i primi a coalizzarsi con il datore di lavoro sono proprio i colleghi, i primi a lamentarsi del fatto che tu non riesci più a rimanere in ufficio fino alle 10. Meglio tagliare una risorsa e formarne un’altra piuttosto che cercare di andare incontro alle esigenze della neomamma. Altro che valorizzazione del capitale umano.
Pulvirenti racconta un’escalation di piccoli, grandi, pesanti accadimenti che rendono la vita delle lavoratrici un inferno: 230 casi riconosciuti negli ultimi due anni. Ma sono molte di più coloro che si rivolgono al Centro solo per informazioni su diritti, tutele, in via preventiva. Raccogliere i pezzi di una serie di episodi, a volte quotidiani, è doloroso e non è semplice. Non sempre è sufficiente l’approccio “amichevole” di una interlocuzione tra sindacato e datore di lavoro. Non sempre basta una diffida formale, non sempre si ha la forza di arrivare alle vie legali. Molto prima, prima che si arrivi al Centro donna o ci si rivolga a una consigliera di parità ci sono giorni, mesi in cui la resistenza delle donne che vivono il mobbing e trattamenti discriminatori viene messa a dura prova. La resistenza porta a scegliere la via più rapida per tagliare la fonte dei problemi, ciò che all’improvviso ti fa crollare certezze, autostima, variabili, prospettive. Ci ripetono che una donna su tre lascia il lavoro entro un anno dalla nascita del primo figlio, spesso spontaneamente, portandosi dentro quello che ha trovato al rientro e che l’ha portata a questa scelta indotta. A Milano in due anni ne hanno contati 118 di casi di questo tipo. Come vedete, una legge contro le dimissioni in bianco non è in grado di fare da barriera a forme di abbandono del lavoro che di volontario hanno ben poco.
In qualche caso, quando si procede in via giudiziale, si ha il ripristino della situazione lavorativa, con il giudice che procede a prescrivere un risarcimento del danno professionale, prevedendo una percentuale di retribuzione per ogni mese del demansionamento (dal 10% al 40%). Poi occorre valutare danni alla salute e morali. Ma quante donne hanno la forza di arrivare sino in fondo, intraprendere un iter lungo che non è detto che si concluda in modo favorevole? Su questo contano i datori di lavoro, che la donna si dimetta in via spontanea e si arrenda di fronte ai tempi di un ricorso legale. Oltre al fatto che se si ha un contratto atipico, la situazione e le tutele diventano precarie.
Esistono resistenze culturali, che producono formule organizzative aziendali che non sempre sono in grado di accogliere adeguatamente i cambiamenti non solo post maternità, ma in ogni occasione in cui un uomo o una donna si trovano a dover rimodulare la propria vita privata e lavorativa. Perché di mobbing soffrono anche gli uomini. Certo a causa di visioni stereotipate dei ruoli di genere, le donne sperimentano una condizione di precarietà maggiore rispetto agli uomini e di una maggiore esposizione alle discriminazioni lavorative. Le donne vengono ostacolate e frenate nei loro progetti e scelte.
Lo stato pensa bene di ritirarsi pian piano dalla “cura” di questioni cruciali, dando spazio da un paio d’anni alla formula del welfare aziendale: interventi di carattere sociale in forma di trasferimenti monetari o servizi, alternativi alla retribuzione aziendale classica, proposti dalle imprese e liberamente scelte dalle persone in alternativa (asili nido/scuola dell’infanzia, polizze sanitarie e previdenziali, ore di permesso per assistere i genitori, telelavoro o lavoro agile). L’obiettivo dichiarato è migliorare il clima aziendale e fidelizzare le persone. Rispetto a quanto raccontato sinora a proposito della situazione milanese, con un sommerso che non riusciamo a vedere e a quantificare sia in termini di lavoro che di discriminazioni, non sentite la stonatura?
Un neopaternalismo industriale che segna la progressiva resa dello stato in materia di welfare. Ce la vendono come responsabilità sociale delle imprese, che ci guadagnano in termini di sconti fiscali, ma sappiamo come da un lato ci siano queste belle facciate e poi si continui a mobbizzare le persone. Un modo per dirti di non chiedere di più, di non pretendere rinnovi contrattuali perché mamma impresa già ti garantisce tanto.
Intanto ci sono evidenti problemi. Emmanuele Pavolini, Università di Macerata, intervenendo l’anno scorso (luglio 2016) in un convegno alla Camera li evidenziava:
– Rischio di scarico di responsabilità su impresa: Welfare aziendale inteso in alcuni casi come sostitutivo di quello pubblico.
– Rischi di dualizzazione: quali profili di lavoratori hanno accesso al welfare aziendale e quali no.
– Il welfare interaziendale e territoriale: il Welfare aziendale va adattato alle esigenze sia di imprese di grandi dimensioni come delle PMI e collocato all’interno di un’ottica di rete pubblicoprivata.
– Bisogni di conciliazione non troppo coperti per ora (neanche) dal Welfare aziendale: non autosufficienza.
Pavolini indicava anche cinque punti su cui intervenire:
1. Dal welfare aziendale al welfare interaziendale per le PMI e per le filiere che vedono assieme grandi imprese e PMI: rafforzare e sostenere ruolo Enti Bilaterali.
2. Sostenere l’azione di soggetti in grado di facilitare la costruzione di reti fra imprese e altri attori nel territorio – progetti che finanzino e sostengano «reti territoriali per la conciliazione» (Lombardia). Ma come funzionano e come vengono monitorate (ndr)?
3. Sostegno delle spese per l’accesso a servizi socio-educativi (voucher) e/o creazione diretta di servizi aziendali (asili nido) aperti al territorio: sostenere l’accesso ai servizi è lo strumento migliore per ridurre i processi di «dualizzazione» dati i costi dei servizi per la prima infanzia relativamente alti e le liste di attesa lunghe.
4. Semplificazione della normativa di incentivazione fiscale al welfare aziendale e supporto alla contrattazione decentrata (L. Stabilità).
5. ATTENZIONE: OCCORRONO INVESTIMENTI FINANZIARI NELLA RETE PUBBLICA DI SERVIZI ALLA PRIMA INFANZIA (PER AUMENTARE POSTI E ABBASSARE RETTE) ALTRIMENTI TUTTO IL RESTO REGGE SOLO PER ALCUNI PROFILI DI LAVORATORI E LAVORATRICI!
Quale personalizzazione del servizio ci può essere, quando vengono meno gli intermediari sindacali e il rapporto datore di lavoro-dipendente diventa one to one? Volete farci credere che improvvisamente questo rapporto si è autoequilibrato e si è instaurata una pax aziendale che tutto tutela e tutto risolve? Macché riconoscimento culturale e concreto dei lavori di cura attraverso il welfare aziendale, quando nemmeno ti riconoscono un part-time temporaneo. L’unica libera scelta che possiamo fare è non credere a queste nuove sirene che ci stanno costruendo e tornare a lottare seriamente. Con un nuovo progetto sul lavoro. La CGIL ci ha provato, ma non c’è alcun ascolto, si è deciso di poter fare a meno dei corpi intermedi. Le donne sono state l’imprevisto della storia, qualcosa l’abbiamo modificata, ma evidentemente non in modo permanente e profondo, perché i diritti occorre difenderli non solo acquisirli. Dobbiamo tornare a spiegare che l’orizzonte è la genitorialità e permettere di viverla non come un malanno, un impedimento, un macigno. Così come dovrebbe essere di fronte a ogni criticità e cambiamento. Non augurateci buona fortuna come se dovessimo prepararci a un destino ineluttabile che ci porta fuori dal mondo del lavoro. Siamo indignate di essere inserite nel discorso politico come mamme, siamo donne, questo ci aiuterebbe a cambiare la cultura politica e aziendale. Non ce la facciamo più a sentirci ripetere “trovati un lavoro”, ci avete sottratto il futuro con la vostra ottusa visione semplicistica, che ci ha sottratto diritti e non ci assicura servizi. Iniziamo a tagliare voucher baby sitter e i mitici bonus, creiamo più servizi pubblici. Lo abbiamo visto che questi sistemi non portano risultati in termini di natalità (ossessione governativa): siamo fermi perché evidentemente sono altri i fattori in gioco e che servirebbero. Pretendere che nonostante le nostre precarietà si sfornino figli per la patria si qualifica da sé. Iniziamo a rendere accessibili a tutti interventi friendly come part-time reversibili, turni agevolati, “smart working”. Iniziamo ad assicurare parità retributiva. Forse se partiamo da politiche che guardano al benessere e alla qualità di vita della donna a 360° e non solo nella loro funzione riproduttiva, avremo fatto un passaggio culturale e di civiltà fondamentale.
Che fine hanno fatto poi i 100 milioni per nuovi asili nido stanziati dalla legge di stabilità 2014 e mai spesi dalle Regioni (come risultava da un’audizione dell’ottobre 2016)? Quelle risorse sono rimaste alle Regioni, senza integrare i bilanci dei comuni per l’erogazione del servizio? Questi gli ultimi aggiornamenti che riguardano i nidi. Adesso si parla di un fondo nazionale. Vedremo come andrà questo ennesimo capitolo.
In compenso è arrivato il bonus asili nido e quello da 1.500 euro per baby sitter, tate e badanti a Milano. Non ci sono abbastanza posti, le rate e le quote di iscrizione sono spesso alte, le scuole estive diventano inaccessibili a causa dei rincari ma chi riesce a intervenire su questi aspetti? Ho l’impressione che si punti ad alimentare più il business della cura che altro.
Dobbiamo evitare il faidate, spingere per una visione e per politiche strutturali e sistemiche, ridurre la forbice nord-sud. Se l’obiettivo è rendere questo Paese a misura di donna, dobbiamo avere una visione, di Paese, di investimenti, di equilibri, di modernità e di parità coerenti e che sostengano questo progetto. Occorre il coraggio di percepire la necessità di politiche che daranno i loro frutti solo nel medio-lungo periodo, in un interesse che non guarda solo l’oggi e non guarda solo al proprio.
Rafforzare le modalità di accesso delle donne a posti di lavoro dignitosi e di qualità è un impegno rinnovato all’ultimo G7 di Taormina. Qualità e dignità sono caratteristiche del lavoro che quando si tratta di varare politiche in Italia stranamente perdono forza e valore. Stranamente.
In sintesi, per quel che concerne il tema lavoro:
Ci si è posti l’obiettivo di ridurre il divario tra i tassi di partecipazione alla forza lavoro di uomini e donne del 25% entro il 2025, attraverso la promozione della partecipazione femminile, migliorandone qualità ed equità in ottica di genere. Condizione essenziale è riconoscere l’impatto negativo del gap di partecipazione, retributivo e pensionistico. Altresì occorre riconoscere e dare valore al lavoro domestico e di cura non retribuiti quali contributi fondamentali all’economia.
Una stima/valutazione può essere svolta in modo omogeneo dagli istituti statistici nazionali, europei e internazionali, partendo da quanto già disponibile (OCSE, i dati della 19ma International Conference on Labor Statisticians (ICLS) Resolution on Work Statistics, il lavoro dell’ILO (labor force survey (LFS). Unire i dati serve a monitorare progressi e a ricalibrare le misure, in modo che i compiti non pesino solo sulle donne. Investire in infrastrutture sociali per sostenere ogni tipo di compito di cura, un mix interconnesso di strutture, luoghi, spazi, programmi, progetti, servizi e reti che servono a migliorare gli standard e la qualità della vita in una comunità. A questi vanno aggiunti strutture e servizi per la salute, strutture didattiche, aree ricreative, nonché programmi per incrementare lo sviluppo dello sviluppo comunitario e culturale.
Inserire un’ottica di equità di genere serve in ogni fase del processo di decisione politica e di definizione delle priorità nella definizione delle infrastrutture: concepire, pianificare, approvare, eseguire, monitorare, analizzare e controllare il budget.
Prevedere la dimensione di genere consente di ottimizzare l’impatto e / o aumentare la quantità di risorse disponibili dedicate. L’obiettivo è creare un sistema di servizi, infrastrutture e servizi sociali, anche in partenariato pubblico-privato, realmente accessibili a tutti.
Grafico fonte e diritti: Corriere della Sera
Illustrazioni: Anna Parini