Potrei scegliere di raccontarvi un caso di cronaca tra i tanti, e il minimo comune denominatore tra tutti sarebbe quasi sicuramente sempre lo stesso: una denuncia rimasta inascoltata.
Nel 2009, con fatica – e la fatica pare essere componente essenziale del nostro processo legislativo quando si affrontano temi spinosi – è stata approvata la Legge n. 38 del 23/4/2009, ”, conversione del decreto legge n. 11/2009. Vorrei concentrarmi sugli atti definiti persecutori per fare una riflessione più ampia. Il proposito della legge sembrava chiaro: identificare e punire tutti quei comportamenti vessatori e lesivi dell’incolumità propria o di un prossimo congiunto, portando la vittima a modificare – talvolta irreversibilmente – le proprie abitudini di vita. Si parla non a caso di lesione della “libertà morale” del soggetto, inibito nella capacità di autodeterminarsi.
Letteralmente, si resta imprigionati nella propria vita.
Il reato, in ottemperanza alla legge e alla sua successiva integrazione, con D.l. n. 93/2013, prevede una reclusione dai 6 mesi ai 5 anni, con possibilità di incrementare la pena della metà qualora ad essere colpiti siano soggetti più deboli. Il reato è procedibile a querela entro i sei mesi successivi al reato, ed è irrevocabile solo se ad essere colpiti sono appunto minori, donne in stato di gravidanza o portatori di handicap.
Veniamo al nocciolo del discorso: cosa si può fare per proteggere una donna che sceglie di denunciare? Uno strumento è il celeberrimo “divieto di avvicinamento” ai luoghi frequentati dalla vittima e/o dai suoi congiunti, e qualora vi siano esigenze lavorative o abitative (e non sia stato disposto l’allontanamento dalla casa coniugale) il “divieto di comunicare” con la vittima in qualunque modo in quei luoghi. Se, invece, si vuole “prevenire” l’atto persecutorio ed “avvisare” il persecutore, il Questore può optare per una richiesta di ammonimento, compilata dalla vittima e inoltrata all’ufficio di competenze che – convocato lo stalker – provvederà a raccogliere le informazioni utili a valutare la fondatezza della richiesta. La legge si pone poi dalla parte della donna garantendole il gratuito patrocinio e disponendo l’arresto immediato in flagranza di reato. Ma tutto questo basta?
Da molto tempo diciamo che la rivoluzione deve partire dalla cultura, soprattutto quella dell’ascolto e della comprensione. Si sta sviluppando solo recentemente un’idea di comunicazione empatica, che ci consenta di non giudicare una donna che è vittima di abusi, ma di comprenderla e cercare insieme a lei la via d’uscita. In particolar modo, i corsi di formazione per le forze dell’ordine diventano una risorsa necessaria. Saper raccogliere una denuncia, ricostruire una storia partendo da frammenti balenati all’improvviso nella mente e a volte senza alcun ordine logico è fondamentale per riuscire a dare l’adeguato supporto e il giusto peso ad una richiesta d’aiuto.
Denunciare (querelare, nel caso dello stalking) è un atto di grande coraggio, che deve essere ripagato con legittima attenzione e delicatezza. Denunciare vuol dire mettere la propria vita nelle mani di qualcun altro, sperando di ricevere aiuto concreto ma anche e soprattutto comprensione. Vuol dire sapere che qualcuno, dall’altra parte, ha capito di cosa si sta parlando, ha capito che quegli atti persecutori non sono stati provocati, che affrontare tutto da sola non basta più.
Ed è vero che un supporto del genere implica un dispiego di risorse umane ed economiche generoso, ma non possiamo dire ad una donna di denunciare e poi vederla morire perché lo Stato non ha fatto la propria parte. È giunto il momento di attribuire alla denuncia il valore che ha: la scelta precisa di una donna di dire basta alle molestie e di tornare ad essere parte integrante di quella società dalla quale era stata isolata senza chiederlo. È un dovere morale, quello dello Stato, di mettere in gioco ogni risorsa a sua disposizione affinché queste donne possano tornare a vivere, a lavorare e a coltivare relazioni serenamente.