Gina Pane: artista italo francese di rara sensibilità, nonché personalità di spicco della Boby Art del secolo scorso.
Nata nel 1939, da padre italiano e madre austriaca, a Biarritz , Gina Pane trascorse parte della sua infanzia in Italia: è stata dunque una artista francese per nascita, che ha vissuto in Italia, nel paese di suo padre. A questo probabilmente si deve la sua comprensione profondamente connessa con la spiritualità e il senso del sacrificio, tanto radicato nel comune sentimento italiano.
Studiò all’Académie des beaux arts di Parigi dal 1961 al 1966. Dalla formazione accademica di Gina Pane deriva l’interesse per il corpo e la sua fisicità, nella sua accezione globale per cui anche spirituale, sperimentata fino al limite della sofferenza imposta allo stesso corpo, come esperienza mistica. Insegnò presso l’Ecole des Beaux-Arts di Mans tra il 1975 ed il 1990; condusse workshop sulle performance al Centre Georges Pompidou tra il 1978 ed il 1979. Morì prematuramente a Parigi nel 1990 a causa di un cancro. Questo ci ha lasciati privi di un grande apporto che avrebbe certamente continuato a dare all’ arte, anche se molti artisti hanno provato a raccogliere la sua eredità, a cominciare dalla Abramoviç, senza forse però centrare la sua tensione alla ascesi.
Prima di cominciare ad occuparsi di sculture e d’installazioni, realizzò numerosi dipinti geometrici. Essi, vicini alle esplorazioni di Bruce Nauman e di Robert Morris, al di fuori di una ricerca formale, impiegano già le tematiche dei suoi lavori successivi, in cui la relazione del corpo con la natura determina le sue sculture “penetrabili” e, soprattutto, le sue performance.
Figura dunque di primissimo piano della body art degli anni settanta, realizzò una serie di performance, minuziosamente preparate e documentate, in cui ogni gesto, spesso legato alla dimensione dolorosa del corpo, viene compiuto con un’apparenza rituale.
Nel 1968 con “Pierres déplacées” supera la fase d’esordio delle “Structures affirmées” (1965-1967), sculture minimal monocromatiche, e si indirizza sul rapporto uomo-natura consonante all’esperienza poverista di Giuseppe Penone. Infatti per il suo “Lavorare sugli alberi”, le date sono le stesse, come i luoghi.
Dopo le prime esperienze con la scultura, Gina Pane contribuisce in questo modo all’ambiente culturale da cui nasce l’Arte Povera: i suoi interventi sul e nel paesaggio vengono documentati da sequenze fotografiche, le basta scostare le pietre dall’alveo del torrente, verso il sole e la luce, o farsi riprendere tra la terra e il cielo come in “Situation idéale”(1969). Nel 1968 lavora ed espone in Italia,Torino e Milano, le prime installazioni come La Pêche endeuillée (Galleria Diagramma, cioè Luciano Inga Pin).
Nel 1969, realizza, sempre in Italia, la sua prima azione fondamentale da Franz Paludetto LP 220 di Torino, opere installative basilari come ” Premier projet du silence” , “Deuxième projet du silence” e in seguito ” Stripe Rake”. Nel 1970 riprende “La pêche endeuillée” (installazione), alla Galleria Franz Paludetto – LP 220 , Torino. È importante comprendere la struttura e il lessico , simbolico e semantico, di questa performance, così propedeutica alla grandiosa performance “AZIONE SENTIMENTALE” del 1973. La pesca a lutto in memoria di 23 pescatori giapponesi morti nel marzo del 1954 durante esperimenti americani nucleari nel Pacifico, e lo straordinario “Dessin verrouillé” in cui all’interno di una scatola di ferro si nasconde un disegno sconosciuto, sono momenti di una espressione artistica intensa e pura, come era Gina Pane. In particolare nel “Dessin” c’è chiaramente una eco duchampiana e una derivazione di matrice squisitamente milanese, a cavallo tra Lucio Fontana, i cui tagli divengono illuminanti e Piero Manzoni nel suo concettualismo spinto, ed ecco che compaiono i tagli suturati, le saldature del contenitore sono già ferite che possono rimarginare ma restano come traccia, memoria della ferita. Del 1973 è” Action transfert”: una constatazione dell’azione realizzata allo Space 640, in rue Saint-Jeannet, a Parigi, in cui vi sono 15 pannelli di fotografie a colori e seppia, 1 pannello di appunti e disegni preparatori a inchiostro e pennarello su pezzi di carta ritagliati e incollati su carta, 1 pannello: 58,5 x 48,5 cm, 15 pannelli: 48,5 x 58,5 cm. ( oggi presso la Collezione Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Francia.)
Nel 1973 riprende “Moment de silence” (installazione a cura di Franz Paludetto), Betty Barman, Bruxelles.
Dunque lo “scandalo” lo producono le sue azioni come l’ impattante ” Azione sentimentale” del 1973, Death Control (presentata nel 1974 addirittura nel salotto dell’arte della Fiera di Basilea, sempre con la galleria Il Diagramma), Psychè (1974)
La performance ” Azione sentimentale” , del 1973 , merita un discorso ed un approfondimento a sè perchè è una vera e propria chiave di volta nella espressione artistica della Pane . Con le sembianze di una sposa o una vestale, Gina Pane decise di usare l’arte come forma di rivolta per i diritti umani, politici e ambientali, caratterizzando la sua poetica di femminismo, protesta e sacrificio.Con linguaggi differenti, ma una sola costante, quella dell’amore verso il prossimo, Gina Pane introduce nelle sue performance il taglio, la ferita, il sangue. Ella realizzò dunque un’audace performance composta di più parti che illustravano una dimensione cattolica del martirio attraverso l’automutilazione: nella galleria milanese di Luciano Inga Pin l’artista è vestita di bianco e porta un bouquet di rose rosse, dalle quali stacca tutte le spine conficcandosele poi nel braccio. Successivamente le toglie lasciando colare un rivolo di sangue. Le rose rosse del bouquet diventano bianche. Il vestito bianco si tinge di rosso.
Le spine delle rose sono simboli di un tormento sospeso tra la religiosità e la condizione femminile. L’artista era religiosa e la sua è un’arte sacra. Naturalmente la sua visione non era certamente illustrativa ma fondativa di una spiritualità contemporanea in cui l’arte doveva avere un ruolo determinante. E a questo punto l’artista s’incide il palmo della mano con una lama di rasoio e il sangue si raccoglie in un piatto. Tutto si compie davanti ad un pubblico di donne : “E’ a voi che mi rivolgo perché voi siete questa unità del mio lavoro: l’altro. Il corpo ha un ruolo fondamentale nel noi. Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il mio sangue, è per amore vostro: gli altri. Ecco perché tengo alla presenza delle mie azioni.” esordisce l’ artista. Per Gina dunque l’arte è amore, donazione, apertura totale alla natura — oltre che agli altri uomini — come madre e sentimento originale. “Oggi rivendico il religioso e tengo al fatto che questa parola sia corretta etimologicamente parlando, rispetto al mio lavoro. Inutile dire che il termine non è legato a nessuna pratica istituzionalizzata ma, al contrario, sono io a fornire gli indirizzi per cui questa dimensione religiosa sia connessa alla vita comune degli esseri umani.” Dichiarò la Pane. Compito arduo quindi quello che Gina Pane aveva scelto per sè, che ha costruito tutta la sua poetica attraverso linguaggi differenti, ma con la costante di comunicare amore verso il prossimo, vicinanza, partecipazione.
Gina Pane fu dunque di esempio e sprone per una generazione di artisti, imprescindibile per tutti e obnubilata da qualcuno solo per via della sua prematura scomparsa e il suo carattere meno incline a forme ” spettacolarizzanti” della espressione performativa di cui è stata pioniera e altissima vate. Le sue performance – le sue Actions- sono assolutamente identificative di una esperienza antropocentrica e di rapporto tra la natura e la natura umana. Tutto il suo lavoro ne è stata la profonda e commossa ricerca.Ha saputo utilizzare in modo simbolico il proprio corpo ispirandosi alla azione del Cristo, “Gesù: il più grande performer della storia, colui che l’ ha sicuramente ispirata” ( mi sottolinea Oronzo Liuzzi, noto artista coratino, in una nostra conversazione su Gina Pane) , al di là delle verità storiche e delle credenze. Ha operato come nessuno nella Body Art e nella esperienza performativa, quand’ anche molto forte e d’ impatto, proprio alla ricerca di un equilibrio dialettico con il pubblico e di un suo coinvolgimento fisico ma soprattutto mentale e spirituale. Ha anche saputo mettere in chiaro i limiti della rappresentazione – cosa che non riuscì altrettanto bene alla Abramoviç nella performance di Napoli – tenuta invece dalla Pane ad una certa distanza dagli spettatori, magari con lo sguardo nascosto da occhiali scuri se non a specchio.Il corpo umano perciò indicato e vissuto come esperienza radicale, come culto ancestrale e inconscio. Il corpo quindi come misura dello spazio, luogo spirituale e fisico di un rito primitivo, veicolo di protesta e rivendicazione del diritto ad una esistenza completa di materia spirituale e dignità nel dolore… Il corpo come “tempio trafugato”, come prova di resistenza e autocontrollo – concetti esplorati dalla Abramoviç sempre in rapporto al pubblico presente e da lei ” spettacolarizzati” pur nella intrinseca doppia sfida – a sè stessa e al pubblico- non sempre vinta, anzi. “Sin da quando l’artista cessa di essere vissuto come artigiano, non prima del Rinascimento, le arti visive tendono a spostare l’attenzione sulla centralità e dunque sull’identità fisica del pittore, cominciando ad affermare la sua vicinanza a Dio, non più solo un esecutore, ma guida, pensatore pronto a svelare e rivendicare le proprie sembianze: una premessa indispensabile per comprendere il percorso tra arte e corporeità. Passando quindi per Velàsquez, Rembrandt, Goya, Van Gogh, Munch e Duchamp solo per citarne alcuni, dall’autoritratto all’interpretazione simbolica e pratica dell’happening il passo è breve..” ( di Dato ) Ecco dunque l’ esperienza della inclusione attiva del pubblico davanti alla prova performativa che sollecita anche in modo estremo la resistenza psico-fisica di un artista insieme a quella del pubblico stesso. In definitiva è un tiro alla fune; le reazioni possono essere molteplici. Innanzi a quello che spesso è un accanimento sul corpo, un atto di autolesionismo, è sconcertante notare quanti, non senza una buona dose di sadismo, ne siano compiaciuti, quanti provino ribrezzo per la violenza dei gesti o invece restino totalmente indifferenti. Molti gli artisti colpiti dalle performance della Pane, prodottisi in performance giunte e superanti atti di autolesionismo. Pericolo e tensione, nella performance della Abramoviç sul ghiaccio , invece senza autolesionismo in alcune performance di questa con Ulay ( in Rest Energy mettono alla prova il loro amore e la reciproca fiducia. Lei impugnando un arco, lui nell’atto di puntare la freccia dritta al suo cuore) sia pure non priva di rischi.
Senza dubbio più emotiva ed estremamente raffinata fu Gina Pane .
« Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo scoprire sia la propria debolezza, sia la tragica ed impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà. Inoltre, questo significa prendere coscienza dei propri fantasmi che non sono nient’altro che il riflesso dei miti creati dalla società […], il corpo (la sua gestualità) è una scrittura a tutto tondo, un sistema di segni che rappresentano, che traducono la ricerca infinita dell’Altro”. Gina Pane non ha mai avuto timore di affrontare linguaggi e orizzonti differenti. Il corpo è carne e terra in “Enfoncement d’un rayon de soleil”, in cui capta la luce solare con due specchi per farla scivolare nella terra buia( si direbbe un atto primevo e sacerdotale). Affronta il sublime e il divino sempre visto dalla parte dell’umanità in “Priere des paure et le corps des Saints”, istallazione di nove vetrine contenenti i simboli e i corpi di altrettanti santi, un piccolo cimitero di eroi morti per la fede, nonché simboli a disposizione di chiunque. In questa e molte altre performance e installazioni, Gina Pane fa del suo corpo la “cassa di risonanza dell’intera società, lo specchio di coloro che rifiutano una società consumistica e superficiale”. Una negazione che prende forma col corpo e l’ambiente circostante, attraverso il dolore fisico, qualcosa di universalmente riconosciuto umanamente condivisibile.
Nel 1981 la Pane terminò il ciclo delle sue performance ed iniziò le “Partizioni”, in cui l’argomento centrale è il ruolo del corpo e la sua relazione col mondo. Le “Partitions”, cioè delle installazioni, spesso a parete, recano anche parzialmente tracce di opere precedenti o delle stesse “Azioni”, qui l’artista abbandona per suoi limiti fisici l’uso del proprio corpo come linguaggio. Ritorna alla scultura, ma con l’esperienza performativa alle spalle. È questa la produzione che accompagna Gina Pane fino alla scomparsa prematura nel 1990. I soggetti delle opere sono spesso i santi, anzi i martiri, cioè coloro che hanno dato la vita per la fede e per l’umanità. Le fonti sono varie, anche provenienti dalla storia dell’arte. In San Giorgio e il drago (1984-1985), opera ispirata a un dipinto di Paolo Uccello, il colore e le geometrie rappresentano una scomposizione del dipinto dell’artista toscano, sintetizzando l’uccisione, il sangue appena accennato, il superamento del bene sul male. E così altri lavori ispirati a particolari di opere di Hans Memling o di Filippino Lippi, senza scadere nella citazione ma cercando sempre di decrittare l’iconografia attraverso una sintesi linguistica, trasformando tutto in qualcosa di diverso di attuale e di unico.
“In Gina Pane il mistero rimane ed è da condividere con gli altri attraverso l’arte, che è contemporanea proprio perché non si mescola con la sociologia e non si consuma nel presente” (Dehò): questo è l’ altissimo e profondissimo senso dell’immenso apporto artistico di Gina Pane, esattamente all’ opposto del lavoro della Abramoviç .
Esplicativi del suo sentimento e della sua spiritualità, e per meglio comprenderla, si consiglia la lettura dei suoi scritti:” Lettere ad uno sconosciuto” WEBLIOGRAFIA: “La ricerca inesorabile dell’ altro” Simone di Dato – europinione.it “Gina Pane”- Valerio Dehò – FlashArt