Siamo stati tutti adolescenti, anche se spesso ce ne dimentichiamo: tutti abbiamo visto cambiare il nostro corpo e nascere emozioni e pensieri nuovi, tutti abbiamo vissuto dubbi e incertezze, tutti abbiamo voluto staccarci dalle figure genitoriali ma non sapevamo come farlo, tutti a tratti avremmo voluto scappare da noi stessi e a tratti ci buttavamo con gioia nella nuova avventura che la vita ci offriva ogni giorno.
Ma non basta essere già stati adolescenti per comprendere, proteggere e contenere i ragazzi , bisogna fare uno sforzo in più, ricordarci come eravamo e cercare di vedere la realtà anche dal loro punto di vista. Solo così possiamo accompagnarli a prendere atto dei loro limiti e imparare a gestirli, ad amare la loro luce e a non temere le loro ombre, ad accettare ogni trasformazione ad ogni livello come parte indissolubile di sé.
Cristina Obber ci sta riuscendo e pare anche molto bene. Già da tempo collaboratrice di Dol’s Magazine, giornalista e scrittrice che si occupa di violenza di genere e diritti, ha scritto libri sugli adolescenti per gli adolescenti e non solo; le scuole la invitano proprio perchè ai ragazzi e alle ragazze parla della vita senza omettere quelle sfumature che spesso gli adulti fingono di ignorare quando parlano con i più giovani. I suoi libri nascono dal desiderio del confronto. Ascoltando alla radio la notizia di uno stupro di gruppo tra minorenni, ad esempio, ha pensato che forse non abbiamo spiegato abbastanza ai ragazzi cosa si prova a subire violenza. Ma non si è limitata a fare congetture, è subito passata all’azione, è andata in carcere a parlare con gli stupratori e ha intervistato una ragazza stuprata. Da qui è nato il libro “Non lo faccio più” e un progetto nelle scuole per fare formazione su violenza sessuale e femminicidio. Dall’incontro in università con due ragazze che stavano insieme da sette anni e manifestavano liberamente con molta tenerezza la loro relazione è nato il libro “L’altra parte di me” che parla d’amore e di coming-out.. Da un incontro reale e vivo con una ragazza siriana nata in Italia ma destinata ad un matrimonio con un uomo della sua terra e quindi ad un ritorno in Siria dove subisce soprusi e violenza, nasce il libro “Siria mon amour”.
Obber parla di crescita e cambiamento costante anche negli adulti e vorrebbe che la famiglia fosse quel luogo di sostegno e accoglienza incondizionata che ogni figlio desidererebbe. E racconta come sia necessaria una nuova alleanza tra genitori e insegnanti e come oggi a questi ultimi sia stata tolta autorevolezza, con i genitori sempre pronti a difendere i propri figli. Ma anche come dietro ad atteggiamenti di apparente accettazione ( atteggiamento di per sé disturbato e disturbante perché implica giudizio e convinzione di avere in tasca La Verità) si nasconda ancora un giudizio spesso sferzante.
Forse il compito di Cristina Obber è togliere le barricate e mostrare come la vita sia molto più semplice di quanto vogliamo credere. Parlare di Energia del Femminile in lei è apprezzare la sua empatia, la sua emozionalità e anche la sua passionalità. E la certezza che non si smetta mai di trasformarsi e crescere.
*Perché hai scelto di rivolgerti agli adolescenti?
In realtà non ho scelto, ho seguito gli accadimenti. Il primo libro per gli adolescenti è stato “Non lo faccio più”, per raccontare loro cos’è la violenza sessuale per chi la subisce e per chi la compie. E’ stato un atto dettato dalla rabbia dopo un’ennesima notizia di stupro tra minorenni, ma anche un atto di fiducia perché la consapevolezza permette di scegliere. Da questo libro è nato il progetto scuole che mi ha portato in giro per l’Italia e che mi ha suggerito anche i titoli successivi perché legati alla stessa necessità di offrire ai ragazzi e alle ragazze strumenti per parlarsi di argomenti che sono ancora tabù e che non gli permettono di esprimere la loro voce. Chi spara a zero sugli adolescenti non li ha mai ascoltati.
*Scrivere per gli adolescenti oggi è diverso da chi scriveva per loro negli anni cinquanta, negli anni settanta, negli anni novanta?
Penso che la differenza risieda nella minore ingenuità che i ragazzi e le ragazze hanno in una fascia di età che li vede molto più adultizzati di quanto lo fossimo noi. I confini tra infanzia e adolescenza, come tra adolescenza e vita adulta, sono sempre più incerti. Ragazzi e ragazze sono perennemente connessi col resto del mondo, di tanti mondi, e questo aumenta la loro capacità critica. Vi è certamente maggiore eterogeneità nella domanda e nell’offerta; il marketing è sempre più spietato in tutti i settori, libri compresi, e la sfida è continuare a scrivere senza tenerne conto.
*Mi piace sentirti dire che la loro capacità critica è aumentata. Generalmente si dice il contrario, quando ci si aggancia agli stereotipi che fanno della Rete la madre divoratrice dei giovani; e se consideriamo invece la Rete come madre che li alimenta e li contiene?
Io adoro la Rete e le molteplici possibilità che offre. Sono stata severa con le mie figlie e mio figlio durante l’infanzia, perché penso che ai bambini la tecnologia più che dare tolga, sottragga spensieratezza e gioia. Ma nell’adolescenza la rete è strumento di conoscenza, permette di allargare il proprio sguardo, in moti casi permette di non sentirsi soli e sole. Non è poco. E’ anche vero che la velocità con cui si acquisiscono le informazioni può comprometterne l’approfondimento e che ci sono anche dei rischi; è importante che l’uso della rete sia accompagnato da un’educazione e una preparazione esattamente come si fa prima di mettersi alla guida di una automobile. In questo le famiglie e la scuola sono ancora carenti, durante gli incontri con i genitori e gli insegnanti sul cyberbullismo ad esempio emergono molte difficoltà dovute proprio alla non conoscenza del mezzo e questo, qualsiasi età abbiano i figli, si traduce in una incapacità di difenderli.
*La tua indagine è tutta rivolta ai diritti violati. Da cosa nasce in te questo tuo “compito”?
Da una banalità. Io ho molti diritti. Ne godo con gioia e dunque mi piace pensare che questo accada anche agli altri. Nella mia vita ho sempre lottato per difendermi dai soprusi e le ingiustizie, e anche quando il prezzo è stato alto ne è sempre valsa la pena. Per questo metto sempre al centro la ribellione contro gli stereotipi che ci ingabbiano, maschi e femmine, da quando nasciamo, perché la felicità è un diritto di tutti, non bisogna avere paura di fare fatica e andarsela a prendere.
*Mi viene da definire la tua letteratura un dono sociale. Mi aiuti a capire il perché?
Mi piace molto questa espressione, perché i momenti più belli sono quando ricevo dei grazie da ragazzi o ragazze, o genitori, che dopo aver letto un mio libro si sono avvicinati gli uni con gli altri, o che hanno compreso di avere bisogno di aiuto, o che questo aiuto lo hanno cercato e trovato e mi raccontano di pianti ma anche di nuovi abbracci. Anche tra i banchi di scuola si può essere fisicamente vicini ma non sapere molto l’uno dell’altro. “L’altra parte di me” ad esempio ha dato forza per molti coming-out, coi genitori o con amiche e amici. Con “Non lo faccio più” si sono svelate situazioni di stalking e violenza di cui quelle ragazze si vergognavano, è successo anche durante un incontro in un liceo e nessuno ne sapeva niente.
*E’ bello il tuo modo di intervenire nel sociale, sembra nascere da te, da quello che senti, prima ancora che da qualunque ideologia.. In questo ti ritieni uno spirito libero?
Lo sono sempre stata così come fin da piccola nutro un naturale amore per la vita e gli esseri umani in generale, con un ottimismo che nonostante le batoste continua a prevalere nei miei approcci con gli altri e a cui non voglio rinunciare, anche se so che tra le gioie mi riserverà qualche nuova delusione. Sulle ideologie devo stendere un velo pietoso perché ho imparato presto come siano permeate di contraddizioni e miserie. Se a 18 anni pensavo che il mondo si dividesse in buoni e cattivi a 25 avevo già chiaro che non è così. Il mio spirito libero si sveglia con me ogni mattina.
*Ti ritieni ribelle?
Sono cresciuta sentendomi dire che ho un carattere ribelle come se fosse un difetto. Oggi so che è la mia forza, che mi ha salvato in passato da situazioni opprimenti, nel personale e nel mondo del lavoro, e che continua ad esprimersi nella libertà delle mie scelte, anche quella di decidere cosa scrivere e cosa non scrivere, per tornare ai libri, rinunciando a delle opportunità.
*Quello che decidi di scrivere nei tuoi libri lo presenti anche nelle scuole.. cosa fai, cosa ti fai raccontare, di cosa parlate?
E’ difficile riassumere in poche righe incontri di circa tre ore (perché più brevi non li prendo più in considerazione, ci vuole tempo per dare spazio a questi argomenti); diciamo che cerco di aiutare i ragazzi e le ragazze (o gli adulti nel caso la formazione sia per loro) a mettere insieme i pezzi di un puzzle; di fronte a notizie di femminicidi o stupri si fatica a trovare una spiegazione, ma se analizziamo insieme un articolo di giornale che li racconta, un cartellone pubblicitario, uno spot, il linguaggio del cyberbullismo, le parole di vittime e carnefici, i commenti sui social, gli insulti, se prendiamo esempi dalla vita quotidiana che ragazzi e ragazze raccontano, le parole che usano, i sentimenti che esprimono, ecco che si comincia a comprendere che ognuna di queste cose sta sotto lo stesso ombrello che si chiama cultura sessista, omofobica e razzista e soprattutto che ognuno di noi, da quel momento in poi, può metterci del suo per cambiare le cose.
*Ciascuno può essere coinvolto nelle tematiche di cui tu tratti, come attore o come spettatore. Uno dei tuoi temi è lo stupro vissuto da chi lo infligge, oltre che da chi lo subisce. Cosa ti ha spinto a considerare non solo il vissuto della vittima ma anche quello del carnefice? Ma ha poi senso parlare di vittima e di carnefice?
Ha senso perché c’è chi subisce una violenza e chi la infligge. Il termine vittima non si deve legare al vittimismo ma al suo significato di persona che ha subito una ingiustizia. Essere vittima si rivendica denunciando e pretendendo tutela dei propri diritti, nonché giustizia. E’ ora di finirla con la cultura della vergogna e il senso di colpa che ancora affligge tante donne e tante ragazze. O con la cultura dell’assistenzialismo. Le donne non sono soggetti deboli, sono soggetti forti che si vedono violare diritti con atti psicologici, verbali, economici e fisici. Ho voluto incontrare gli stupratori in carcere perché volevo capire cosa resta addosso a un uomo che ha commesso un simile crimine, cosa gli resta addosso nel tempo. Ho voluto riportare nel libro alcune testimonianze perché fosse chiaro a tutti che in uno stupratore non c’è virilità né forza ma solo un esercizio di potere dettato da frustrazioni e viltà.
* Oltre alle forme di violenza conclamata ed estrema, tu parli anche di quella violenza più sottile, non sempre immediatamente riconoscibile che intride a tratti le vite di tutti.. Il potere..c’è anche tanto potere nelle parole.. Perché il tuo progetto per le scuole si chiama “Parole per noi”? Vuoi dire che le parole possono costruire o distruggere?
Il mio progetto per le scuole si chiama “Parole per noi”, proprio perché parte dalle parole che si utilizzano tra i banchi di scuola. Ad esempio se una ragazza racconta perché chiama troia una sua amica o un ragazzo spiega perché dà della cagna alla sua ex, cerchiamo tutti insieme di capire come si è formato quel pensiero, in base a quali elementi si ritiene giusto o sbagliato, senza giudicarsi ma per contestualizzarlo nel quadro culturale in cui viviamo. Un quadro devastante e disarmante soprattutto contro le donne anche nel linguaggio. Le violenze di Rimini e Firenze di cui si parla molto in questi giorni ci mostrano non solo dei comuni cittadini ma anche uomini e donne delle istituzioni volgari e violenti, che hanno perso di vista l’importanza e il peso delle parole e non sono all’altezza del ruolo che occupano nella società. Sono adulti da cui non c’è nulla da imparare, per i ragazzi ci vorrebbe il tasto Reset. La scuola però può diventare il luogo dove imparare che nel linguaggio che utilizziamo tutti i giorni è racchiuso ciò che siamo e non siamo, ciò che scegliamo di essere o non essere. Costruire o distruggere, capire o giudicare, avvicinarsi o allontanarsi. Se diamo loro tempo e strumenti ragazzi e ragazze sono benissimo in grado di farlo, e a modo loro.
*E rispetto al cyberbullismo?
Quando partecipo ai convegni sul cyberbullismo si parla molto di parole, della facilità con cui ci si insulta, ci si fa del male. Anche qui la parola magica è consapevolezza. Carolina Picchio, la 14enne di Novara che si è uccisa perché vittima di cyberbullismo, ha scritto nel suo biglietto di addio: “Le parole fanno più male delle botte, cavolo se fanno male”. Il cyberbullismo prende forma lentamente, un po’ ogni giorno, mentre gli adulti intorno tergiversano e minimizzano, puntando il dito sulle nuove generazioni senza riflettere sulle proprie responsabilità quotidiane.. Non possiamo scagliarci con chi distrugge se non gli abbiamo mai insegnato a costruire, se non gli abbiamo fatto vivere la bellezza del costruire. Se non ne siamo per primi capaci. In questo la scuola ha una responsabilità che non può più non assumersi, e per scuola intendo il ministero della pubblica istruzione. Abbiamo una ministra che ben conosce e promuove questa necessità ma serve maggior coraggio perché a piccoli passi non andiamo da nessuna parte. Ogni volta che esco da una scuola mi rendo conto dell’importanza di quanto è appena avvenuto e provo rabbia nel pensare che si tratta di incontri sporadici qua e là. Mi piace immaginare la scuola italiana come un grande prato che viene seminato contemporaneamente in ogni sua zolla per fiorire poi l’anno successivo in un tripudio di colore.
*In “Siria mon amour” indaghi sulle differenze culturali tra le generazioni di migranti. Sei partita dalla situazione reale di una giovane ragazza , Amani, che hai conosciuto personalmente. Cosa hai scoperto parlando con lei ?
Quando ho incontrato Amani e ho scoperto cosa aveva passato senza che nessuno muovesse un dito per aiutarla ho capito quanta solitudine ruota intorno a ragazze che ci vivono accanto ma di cui in realtà sfioriamo soltanto l’esistenza. Per qualche anno avevo insegnato italiano a un gruppo di donne proveniente da vari paesi arabi ma non mi ero mai imbattuta nel dramma di un matrimonio forzato. L’esperienza di ascolto che ho fatto con Amani e che mi ha permesso poi di tradurre in un romanzo gli accadimenti facendo della sua voce un tutt’uno con la mia, facendo mia anche a sua sofferenza per trovare le giuste parole, non senza lacrime, mi ha permesso poi, durante gli incontri nelle scuole, di intercettare altre ragazze in difficoltà proprio perché destinate a matrimoni con connazionali scelti dalle famiglie. Il dramma è che tra i banchi di scuola queste cose non passano, anche qui prevale la vergogna e nel silenzio è difficile trovare scampo.
*Ne “L’altra parte di me” tratti l’amore attraverso una relazione tra due ragazze . Perché l’amore, quando è vissuto tra due persone dello stesso sesso, diventa tabù? Che cosa fa paura?
L’amore omosessuale fa paura a chi vive sulle difensive, a chi teme che ogni cosa non incasellata come gli è stato insegnato possa destabilizzare la propria tranquillità. I ragazzi e le ragazze sono più emancipati dei propri genitori in questo, ma si ripetono ancora forme di omofobia più o meno subdola anche tra i banchi di scuola. C’è una eredità pesante di cui sbarazzarsi, la legge sulle unioni civili aiuta ma la strada è ancora lunga. Io con “L’altra parte di me” ho raccontato una storia d’amore semplice, il primo bacio, la prima volta, le emozioni e i turbamenti che accompagnano ogni innamoramento. Ho subito dei tentativi di censura per le scene di sesso solo perché si tratta di un amore omosessuale, in una società che propone sesso ovunque. Dobbiamo raccontarci di più, uscire da altre forme di silenzio, come la falsa indifferenza. Basta entrare nelle vite degli altri per accorgerci che sono uguali alle nostre, basta avvicinarsi per sgretolare castelli di paure costruiti sul nulla.
*Se davvero si accettasse in tutte le sue forme l’amore come benedizione, cosa cambierebbe nella evoluzione della nostra specie e nel suo rapporto con la madre terra in tutte le sue espressioni?
Come ho scritto in “L’altra parte di me”, la vita sarebbe semplice se la lasciassimo fare. Nasciamo liberi, empatici, puliti. Poi le sovrastrutture ci riempiono di paure, difficoltà e diffidenze. Cresciamo in una cultura che divide. Ci sopravvalutiamo. Bastano pochi giorni tra le dune interminabili del deserto del Namib o i paesaggi lunari del Damaraland per sentire le braccia di madre terra, di una natura che ti vede infinitamente piccolo eppure trova un posto per te. Non ho ricette per vivere in pace e so che ogni cambiamento richiede decenni, ma penso che si debba iniziare ad impegnarci ora e subito per disfare la matassa e riavvolgerla con maggior amore per l’umano e per la natura che lo contiene..
*Perché tanti sensi di colpa nella nostra cultura?
Perché la cultura cattolica integralista è ancora forte e fa della vita delle donne e di chi si dissocia dal modello patriarcale una continua espiazione. Il patriarcato è più forte che mai e dispiace molto vedere che tanti genitori si fanno abbindolare dai gruppi più estremisti che a suon di slogan efficaci fanno leva sul naturale senso di protezione che si ha verso i propri figli, impedendo che nelle scuole si portino avanti quei progetti educativi che sono invece l’unica strada per rompere con gli schemi che vogliono gli uomini aggressivi e anafettivi e le donne servizievoli e accudenti. Dovrebbero essere proprio i genitori a chiedere l’educazione di genere nelle scuole, invece la propaganda antigender, che arriva da gruppi di fanatici americani, fa si che di fronte alle proposte di insegnanti e presidi più attenti alle dinamiche educative siano proprio i genitori a remare contro.
*Cosa pensi del termine “ideologia di gender”?
Penso che basterebbe riflettere sul fatto che chi ha inventato questo termine –che nella realtà non esiste ma è stato demonizzato fino a renderlo reale nell’immaginario- e ne fa il centro della sua propaganda nel contempo vuole negare alle donne la scelta se diventare o meno madri, le vorrebbe rinchiudere in casa a strofinare ed accudire, fa della loro sottomissione un culto. Basterebbe ricordarsi questo per dubitare dei loro slogan facili. Uno per tutti “Giù le mani dai bambini”; si preoccupano tanto per la genitorialità omosessuale ma non muovono un dito, non scendono mai in piazza contro la pedofilia.
*Da cosa hanno origine, secondo te, i finti comportamenti tolleranti e quanto contribuiscono a rendere tutto più complicato?
Nelle scuole rifletto sempre con i ragazzi su due verbi che vanno per la maggiore: accettare e tollerare. Io li ho cestinati e invito tutti a farlo. Accettare viene utilizzato per lo più nella sua accezione legata alla sopportazione e alla rassegnazione –sentimenti che aborro- mentre tollerare porta con sé il fardello del sacrificio che tanto ci fa sentire buoni. La tolleranza mi è stata predicata da bambina quando frequentavo la dottrina, ma mi ergeva su un piedistallo dal quale perdonare pecorelle smarrite. Personalmente non mi considero migliore degli altri e non chiedo al mondo di accettarmi né di tollerarmi, ma di prendere semplicemente atto della mia esistenza. Dobbiamo smetterla con propagandare la tolleranza –cosa che avviene anche con le migliori intenzioni, che leggiamo su locandine di convegni e incontri encomiabili- e questo vale per tutte le differenze. Le differenze ci sono, fanno parte della naturale eterogeneità della vita, perché non amarle?
*Nelle scuole ti accolgono sempre con apertura?
Anche io sono stata boicottata in alcune scuole a causa del famigerato e inesistente pericolo Gender, ma anche se cerco di guardare con tenerezza all’apprensione di genitori poco informati e facilmente manipolabili, mi rattrista ogni volta pensare che per i loro figli si è persa una bella occasione di crescita. Nelle scuole non solo i ragazzi e le ragazze mi ringraziano per aver parlato apertamente di stereotipi, sentimenti, sessualità, ma chiedono di proporre lo stesso incontro ai propri genitori, di cui evidentemente conoscono i limiti. E’ un desiderio di condivisione da non sottovalutare.
*Come reagiscono gli adolescenti alle tematiche omosessuali che tu affronti con loro? Al di là delle parole che dicono, in cosa emergono sia i quintali che le gocce di omofobia?
Gli adolescenti non sono una entità omogenea, incontro differenze abissali tra loro. Alcuni di fronte all’omosessualità parlano ancora di malattia, di cose da camera da letto, altri sono molto più avanti di quanto non fossi io a quell’età e schivano gli stereotipi con disinvoltura muovendosi in libertà. La maggior parte mi sembra intrappolata, proprio come il mondo adulto, in quella omofobia lieve che va dallo sbandierare di avere l’amico gay ai “Non ho niente contro però”: è su quei “però” che cerchiamo di sbrogliare la matassa.
*E rispetto al transgender?
Quando parliamo di transgenderismo incontro il vuoto, anche tra insegnanti e genitori. C’è una confusione enorme, mi trovo di fronte a muri avvolti dal mistero dove si alternano imbarazzo e morbosità. Negli incontri quello che emerge è che si sta vivendo una prima volta, una prima discussione collettiva su temi che si sfiorano appena sotto l’alibi del pudore, e i grazie che mi arrivano si riferiscono proprio a questo: anche se i toni si alzano, anche se capita che si dicano cose spiacevoli o scomode, almeno per la prima volta se ne è parlato. Parlarne è liberatorio, è un’urgenza che ragazzi e ragazze conoscono bene.
*Come si potrebbe sostituire al concetto di diversità quello di naturalità?
Nel libro “L’altra parte di me” la mamma della protagonista, Valeria, una volta scoperto di avere una figlia lesbica, passa le ore in internet a cercare di capire la diversità di Francesca e più storie incontra più si rende conto che le appaiono ugualità, situazioni, sentimenti, preoccupazioni ed esistenze molto simili alla propria. Penso non ci farebbe male ricordarci che la natura ci ha donato anche la libertà della differenza in cui sta la nostra unicità e che le culture le hanno fatte gli uomini per meglio gestirci e controllarci come un pastore col gregge. Basta semplificare, togliere, denudarci per ritrovarci più autentici.
*Quali sono i tasselli che sono mancati ad ogni love revolucion e che adesso saremmo pronti ad aggiungere?
Il fallimento prodotto da trent’anni di scelleratezza, superficialità e minimizzazioni è sotto gli occhi di tutti. Penso che dobbiamo fare i conti con l’egocentrismo che riguarda ognuno di noi e che può trasformare un figlio dei fiori in uno speculatore finanziario. Urge una riflessione più onesta con il rapporto che abbiamo con il denaro e soprattutto con il potere che incide nei percorsi anche politici e di ribellione sociale. Che riguarda anche il femminismo, o meglio i femminismi e i rapporti tra essi. Nella rete Rebel Network di cui sono tra le fondatrici uno degli obiettivi è proprio approfondire le dinamiche relazionali tra di noi e tra noi e il potere che immancabilmente si incontra quando si portano avanti battaglie sociali. Basta vedere cosa accade in politica a chi si adegua velocemente a ciò che fino a poco tempo prima contestava. Il potere è il grande seduttore da smascherare per non tradire noi stesse e chi ci sostiene con fiducia.
*Il tuo impegno nel dare parola a quello che rimane nel silenzio è attivo anche in te e per te? Come è Cristina da questo punto di vista?
E’ una che rischia sempre e da sempre, ma non rimane in silenzio. Che sbaglia, ovviamente, che inciampa, ma che di questo inciampare è sempre disposta a parlare, a scrivere lettere, a prendere il mano il telefono, a salire in auto e raggiungere una persona, un luogo. Col tempo ho imparato a essere meno impulsiva e a dare spazio ad una maggiore riflessione, ma di fronte a una ingiustizia, anche per piccole cose, non sto mai zitta.
*Come vivi il rapporto con i tuoi personaggi mentre li crei e segui le loro vicende che man mano si snodano attraverso di te? La tua empatia è un’utile arma o un ostacolo per te?
E’ un rapporto divertente perché i personaggi prendono forma sulla mia pelle. Ad esempio durate la stesura del “L’altra parte di me” mi ritrovavo a camminare per strada immersa nel libro con una splendida leggerezza, pensando di avere 16 anni, essere lesbica e innamorata. Alla fine del lavoro esistono veramente, è come se fossero persone che hai incontrato e che stanno da qualche parte. Fino ad oggi la mia empatia si è rivelata utile ai fini della narrazione. Dopo l’uscita di” L’altra parte di me” molte ragazze mi hanno scritto chiedendomi stupite come ero riuscita a spiegare così bene come ci si sente, ma non occorre essere lesbiche per immaginare e sentirsi addosso una gioia o una sofferenza. Quando qualcuno mi scrive che ha pianto in alcune pagine le rileggo e apprezzo il mio lavoro. In “Non lo faccio più” credo che il racconto dello stupro subito da Veronica sia stato così efficace perché lei ha percepito la mia lealtà e si è fidata, rivelando cose che non aveva mai detto, che aveva custodito nel profondo. Se non fossi riuscita a fare mia la storia di Amani non avrei saputo scrivere così bene “Siria mon amour”. Quando durante la stesura magari mandavo qualche pezzo ad Amani per sapere cosa ne pensava, lei mi rispondeva che aveva pianto, che avevo esattamente compreso i suoi sentimenti e stati d’animo. L’empatia diventa un ostacolo quando mi fa affezionare oltre il dovuto alle persone che incontro durante la stesura di un libro e che non sempre ricambiano. Ma preferisco il rischio di qualche delusione a quello che vivrei come un mio inaridimento.
*Di cosa parlerà il tuo prossimo libro?
Il prossimo non è per gli adolescenti ma è un libricino illustrato per i bambini dai 3 ai 5 anni ed esce il 20 settembre con edizioni Settenove. Mette al centro il prendersi cura gli uni degli altri all’interno di una famiglia dove la condivisione della Cura è impegnativa ma anche divertente e soprattutto non è solo cosa da femmine. In copertina c’è un bambino che aiuta il padre a fare il bagno al nonno e pensa che quando sarà grande farà a sua volta il bagno al suo papà; il desiderio di amore e tenerezza è anche maschile, dobbiamo cominciare a dirlo. Inoltre i nonni non sono visti soltanto come soggetti accudenti ma anche come una coppia che custodisce e coltiva un sentimento. Si intitola “W i nonni” perché tutto ruota intorno ad una festa a sorpresa che li vede protagonisti. Il primo nucleo di apprendimento è la famiglia ma ai bambini non bisogna spiegare le cose, bisogna dare buoni esempi.