Il pubblico abituato ad un’informazione imprecisa impara a conviverci, non se ne scandalizza e si prepara a perdere la capacità di riconoscere le fake news.
Nelle settimane appena trascorse, abbiamo sentito un gran parlare di malaria, in seguito alla sciagurata notizia della bimba morta all’ospedale di Trento.
L’argomento è stato dibattuto (e continua ad esserlo) in molti talkshow, telegiornali e ne è stato scritto su un numero imprecisato di quotidiani e riviste. Soprattutto, hanno parlato di malaria molti medici, scienziati, specialisti del settore dell’infettivologia e dell’epidemiologia. Giovanni Rezza, direttore dl Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità ha spiegato, nelle trasmissioni in cui è stato invitato, come si trasmette la malaria, come si sviluppa il ciclo vitale della zanzara anofele, quali possono essere le spiegazioni di ciò che è successo alla sfortunata Sofia.
Insomma, le occasioni per documentarsi e capirne di più sono state tante. Nonostante questo, settimana scorsa mi è capitato di assistere da spettatrice ad un servizio all’interno di un seguitissimo telegiornale, nel quale la giornalista attribuiva la malaria all’azione di un “virus”.
Passi che sia una persona magari anche interessata ai fatti ma non professionista della salute a confondere virus e protozoi. Ma è francamente inaccettabile che una simile evenienza capiti ad un individuo che fa comunicazione, che informa. E che informa su temi scientifici, in particolare. Non si tratta dell’inesattezza che infastidisce l’occhialuto precisino, ma piuttosto di cattiva informazione, di dis-informazione.
I tempi di sfiducia nella scienza e nelle sue possibilità che stiamo vivendo e che ci stanno riportando indietro nel cammino evolutivo, ad un’epoca molto più simile (per atteggiamenti e credenze) al Medioevo, stridono con il momento di scoppiettante innovazione tecnologica dei nostri giorni. E non penso che questa conflittualità sia casuale.
Gli investimenti, in termini di risorse economiche e di energia e tempo, in innovazione, ci hanno regalato tante soddisfazioni e questo ci ha spinti a procedere lungo questa direttrice. Ma l’abbiamo fatto a testa bassa, guardando in un’unica, limitante direzione, senza preoccuparci di rendere le scoperte veramente fruibili. Non ci siamo impegnati abbastanza nella finalizzazione dei percorsi scientifici di studio e ricerca, il cui scopo dovrebbe essere il miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo.
Ci siamo piuttosto riempiti la bocca (e abbiamo inondato web e carta stampata) di slogan e annunci sensazionalistici, senza domandarci se veramente ciò che stavamo innalzando agli onori delle cronache fosse utile all’uomo, in quale misura e a quale prezzo.
Questo incedere incurante e, per certi versi, arrogante, non ha fatto bene alla scienza, né alle persone che ogni giorno lavorano nei suoi fascinosi ma difficili ambiti. In breve tempo, ci si è trovati a dover combattere contro una dilagante mentalità retrograda, impegnata nella rivendicazione del diritto all’ignoranza e alla deresponsabilizzazione.
Alla luce di questo, credo che l’errore della cronista tragga origine da due diversi aspetti della realtà moderna.
Il primo è l’esigenza della popolazione media di evitare quanto più possibile la terminologia ed i concetti scientifici specifica. Se un giornalista parla di virus, tutti sanno (più o meno) di cosa si tratti. Pochi sanno come è fatto questo microorganismo, pochissimi come agisce realmente all’interno del nostro corpo e delle nostre cellule, ma il termine “virus” è ormai transitato dal gergo strettamente scientifico alla terminologia corrente.
Non si può dire la stessa cosa di altri, meno popolari microbi. Il protozoo, a differenza del batterio (già più familiare), è tra quelli meno noti. Una notizia, per di più se diffusa attraverso un canale video (ritenuto a gravissimo torto più compatibile con una minore precisione), che contenga un termine come “protozoo”, è ritenuta poco appetibile. Insomma, le redazioni non vogliono correre il rischio che gli ascoltatori cambino canale, per dirigere la loro attenzione verso trasmissioni meno intellettualmente impegnative.
A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa sia l’informazione, se non un’attività attraverso la quale il fruitore dovrebbe passare da una condizione di maggiore ad una di minore ignoranza.
A voi pare che questo tipo di informazione soddisfi il requisito? Condivido la considerazione per cui mediamente le persone non sanno cosa sia un protozoo, ma quale migliore opportunità per fare loro capire di cosa si tratti? Alleggerire i toni e stemperare le complessità non significa banalizzare o mistificare.
Dall’informazione inesatta, il tragitto alle fake news è breve e passa attraverso l’abitudine alla dis-informazione. Il pubblico che viene alimentato ad imprecisioni, impara a conviverci, non se ne scandalizza (nemmeno quando vengono clamorosamente sbugiardate) e si prepara a perdere la capacità di riconoscere le bufale.
Il secondo aspetto è la sempre minore considerazione di cui gode la scienza all’interno delle redazioni dei media. La laurea in discipline scientifiche (diciamo la preparazione scientifica, più in generale) non è ritenuta una condizione essenziale per occuparsi di scienza attraverso i media. Ma come si può informare il pubblico senza essersi prima informati in maniera adeguata?
La pretesa di disporre di informazioni esatte e verificate non è un’assurda espressione di rigore da parte di professionisti frustrati, ma un tentativo di proteggere il pubblico dai danni della disinformazione. Tutti noi, indipendentemente dal titolo di studio e dal settore di cui ci occupiamo, dovremmo pretendere di essere informati e di esserlo in maniera adeguata.
Monica Torriani è moglie, mamma di quattro ragazzi, farmacista e blogger. Si occupa di Salute e Benessere per WELLNESS4GOOD, il sito che ha fondato.